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Facciamo Che…

Forse è il più diffuso, il più universale e il più amato tra i giochi infantili, quello che porta in mondi più lontani, quello che conosce le varianti più disparate e personali: facciamo che io ero Questo, e tu eri Quello, e il salotto era un castello… Giocare a fingere. Con o senza bambole, soldatini o animali di pezza, ricreando le avventure di una storia sentita raccontare o inventando di sana pianta, riproducendo la maternità, il lavoro, la guerra, i rapporti sociali – sempre in qualche specie di equilibrio tra prove tecniche di mondo e il what if più sfrenato.

Chi non ha mai – ma proprio mai – giocato a fingere che… alzi la mano e non si aspetti di essere creduto.

In definitiva, i rapporti tra questo gioco e la letteratura sono stretti: una storia raccontata partendo da un’ipotesi iniziale, la sospensione dell’incredulità, e tutte le possibilità aperte entro le regole del gioco. Narrativa embrionale, e il legame è ancora più evidente nell’espressione inglese make-believe che, a differenza del corrispondente italiano “fare finta” non è associata a connotazioni di menzogna e d’inganno, ma pone l’accento sulla sospensione dell’incredulità da parte del soggetto.

Quindi non è sorprendente che in letteratura si trovino esempi di make-believe, tanto narrati quanto praticati da narratori più o meno in erba- semmai c’è da stupirsi che non ce ne siano di più.

Nella letteratura per fanciulli, il MB è moneta corrente, con vari tipi di significato. Louisa Alcott ne fa un uso frequente e diversificato. In Piccole Donne, le quattro sorelle March riproducono una versione semplificata del viaggio di Christian, il protagonista del Libro del Pellegrino di Bunyan, partendo dalla cantina (Città della Distruzione) e salendo fino alla soffitta ribattezzata Paradiso. Il gioco è chiaramente educativo, e non è chiaro se sia stato ispirato dal padre ecclesiastico o semplicemente ideato dalla vulcanica Jo, ma la scena in cui viene rievocato serve a caratterizzare tanto le quattro ragazze quanto il tipo di educazione che hanno ricevuto. Sotto i Fiori di Lillà, comincia con una lunga scena di MB, la festa di compleanno della bambola in cui due sorelline ricreano i riti di un piccolo mondo sicuro e bene ordinato. L’arrivo del piccolo protagonista – un orfanello fuggito da un circo – scombinerà gioco, realtà e senso di sicurezza. Il racconto Dietro la Maschera presenta una versione più adulta e più inquietante del gioco: in una grande casa di campagna inglese, un gruppo di giovani gioca ai quadri animati con dei vecchi costumi teatrali. Apparentemente l’istitutrice scozzese si lascia coinvolgere un po’ troppo nella finzione con il bel fratello della sua allieva, qualcuno crede al gioco, qualcuno recita, qualcun altro finge – ma non tutto è come sembra.

Più spesso, tuttavia, il MB appare in vesti meno sofisticate. E’ il caso di Momo, di Michael Ende, i cui piccoli protagonisti si lanciano in un’epica avventura immaginaria, fingendo che un vecchi anfiteatro abbandonato sia una nave oceanografica. L’episodio non ha un ruolo narrativo particolare (a parte forse stabilire le posizioni di vari ragazzini all’interno del gruppo), ma la scrittura rende bene l’entusiasmante straniamento di quei prodigiosi pomeriggi che durano un lampo e un secolo insieme. 

Un esempio particolarmente significativo si trova in Puck of Pook’s Hill, di Kipling: nel crepuscolo della sera di Mezz’Estate, Una e Dan recitano una versione adattata di Shakespeare, e la recitano all’aperto, in un cerchio delle fate. Non è chiaro se stiano giocando al teatro o ad essere i personaggi, ma di certo, in un modo che accomuna significativamente gioco, letteratura e incantesimo, Puck in persona obbedisce alla convocazione e compare ai due ignari bambini.

Ho un ricordo molto vago di un libro per ragazzi degli Anni Ottanta – di cui mi sfuggono titolo e autore sicuramente italiano. La storia non era particolarmente memorabile, ma conteneva una scena interessante: entrando di nascosto nel giardino di una casa abbandonata per recuperare un pallone, due ragazzini sorprendevano due coetanee che, con gonne lunghe e bigiotterie sottratte alla mamma, giocavano “a regina e principessa”. “Ma che cosa fanno?” chiedeva uno dei due sbalordito. “Giocano a recitare,” era la risposta. “Le bambine lo fanno spesso.”* Il che sembrava voler implicare una distinzione dei ruoli: calcio per i bambini, make-believe per le bambine. Nell’ultimo capitolo, a mistero risolto, le bambine dichiaravano di avere perso interesse nel giocare “a regina e principessa”, ma non pare che la maturazione di un ragazzino implicasse parimenti il superamento del calcio.

Nella maggior parte dei casi, il MB è associato all’infanzia, ma l’associazione non è sempre particolarmente lieta. Per citare due esempi che più diversi non potrebbero essere, gli eroici sogni ad occhi aperti del futuro Lord Jim (e sostengo con fermezza che, per un bambino solitario, i sogni ad occhi aperti valgono come MB) si riveleranno profezie ironicamente crudeli, e Peter Pan, un ininterrotto, particolarmente magico MB per i fratelli Darling e i Bambini Smarriti, è una storia di irrecuperabilità e di perdita dell’innocenza.**

Quando poi all’aspetto deliberatamente ludico si sostituisce l’imitazione del mondo adulto, la faccenda può assumere colori più sinistri. I Ragazzi della Via Pal di Molnàr e i personaggi de La Guerra dei Bottoni di Pergaud “giocano” alla guerra in modo molto realistico, con tanto di feriti veri e addirittura un morto, in una delle scene più lacrimevoli della storia della letteratura. De Il Signore delle Mosche di Golding non cominciamo nemmeno a parlare, volete? Nei Promessi Sposi, che per fanciulli non sono, alla piccola Gertrude non vengono mai date altro che bambole vestite da monaca, giusto perché non si faccia idee balzane. In Jane Eyre, la piccola (e a dire il vero insopportabile) Adèle viene energicamente scoraggiata dal danzare, perché la madre assente, francese, ballerina e poco seria***, è tutto fuorché un modello da imitare.

Questo MB in chiave negativa sembra una scelta bizzarra da parte di Charlotte Bronte, considerando il ruolo che il MB aveva avuto nella sua formazione personale e letteraria (e che ancora aveva nella vita delle sue sorelle). La profonda e duratura passione dei quattro ragazzi Bronte per i loro regni immaginari e le loro generazioni di personaggi si spingeva al limite dell’ossessione, e nei diari di una Emily ventisettenne si trova questo episodio :

Anne e io abbiamo fatto il nostro primo lungo viaggio da sole e insieme. Siamo partite da casa lunedì 30 giugno, abbiamo dormito a York, siamo arrivate a Keighley Martedì sera, abbiamo dormito lì e siamo tornate a casa a piedi mercoledì mattina. Il tempo era incerto, ma ci siamo divertite moltissimo – tranne per qualche ora a Bradford – e durante il viaggio abbiamo giocato ad essere Ronald Macelgin, Henry Angora, Juliet Augusteena, Rosobelle Esraldan, Ella e Julian Egramont e Catherine Navarre e Cordelia Fitzaphnold. Fingevamo di essere fuggite dal Palazzo dell’Istruzione per raggiungere i Realisti, al momento in rotta davanti ai Repubblicani vittoriosi. (traduzione mia)

Ed ecco che ritorniamo al punto di partenza: make-believe e letteratura. Tutta la produzione poetica di Emily Bronte è basata sul regno immaginario di Gondal che aveva creato insieme ad Anne, e la trama di Cime Tempestose è di derivazione altrettanto gondaliana. Il legame è meno forte nei romanzi di Anne, ma la Jane Eyre ha la sua origine in diverse eroine di Angria, bruttine e indipendenti. Se dico che quei giochi, quei sogni ad occhi aperti e quelle irrealtà condivise hanno fatto delle sorelle Bronte le autrici che sono diventate, non credo di esagerare molto. Se il make-believe è narrativa embrionale, la narrativa si può considerare make-believe adulto – e il viaggio a York di Emily e Anne ci dimostra che fra la distanza tra i due è molto ridotta.

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* Insisto nel dire che non era memorabile. Se ricordo questo passaggio così dettagliatamente è perché – no doubt – il mio subconscio sapeva fin d’allora che un giorno avrei tenuto un blog letterario…

** Se poi si accetta l’ipotesi secondo cui Peter Pan sarebbe basato sul fratello maggiore di Barrie, morto a tredici anni, e che la madre orbata si consolava dicendosi che il suo bambino morto sarebbe rimasto bambino per sempre, il tutto diventa ancora più allegro.

*** In un qualsiasi ordine di gravità.

 

 

 

6 pensieri riguardo “Facciamo Che…

  1. Calcio? Pfùi!

    Una volta mia madre trovò me e mio cugino in lacrime nella cameretta. Lacrime di commozione. Io avevo appena buttato in mare la mia carabina, c’era di mezzo anche una donna, una certa Jolanda, o la figlia del governatore di Maracaibo… non ricordo.

    CdR: Io ero Morgan!
    Renzo: E io il Corsaro Nero!
    CdR: Ma il Corsaro Nero alla fine piange!
    Renzo: (Uh? Vero! Non sarà che non è un vero uomo?) Vabbè… fa niente…
    CdR: Sei sicuro?
    Renzo, incertissimo: sì, va bene lo stesso… avrà avuto i suoi buoni motivi…

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  2. Stephen King ne parla nel romanzo “Misery non deve morire” (che non è una storiella horror, come si potrebbe pensare, ma un avvincente viaggio nel mestiere di scrivere). Chiama il gioco: Puoi? (ma ho letto solo la traduzione italiana).

    Il primo giocatore propone all’altro una situazione. Al termine dice: “Puoi?”. A questo punto il secondo giocatore deve continuare la storia

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  3. @Renzo: bellissimo! Posso confessare qui una cosa à la Emily? Quando ero all’Università avevo introdotto in Collegio la Pinnacola Figurata – il gioco di carte era quello classico, ma ogni partita era una battaglia della Rivolta nel Deserto (io ero sempre Lawrence…), delle Guerre di Vandea o della guerra Anglo-Boera, a seconda che si giocasse in quattro, in due o in tre rispettivamente. A quanto pare mi sono lasciata dietro la denominazione Vickers per indicare i jolly.

    @Danilo: interessante! Se avessi il coraggio di affrontare Stephen King, mi documenterei. Ci giocano l’infermiera e lo scrittore? Perché allora immagino che il gioco non abbia sviluppi allegerrimi…

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  4. Ciao, se non ricordo male, “Puoi?” è un ricordo di infanzia dello scrittore. Un ricordo che diventa quasi struggente quando il protagonista, in piena crisi (di ispirazione ma anche esistenziale) si chiede “Posso?”. Perché, anche da adulto, pensa che lo scrittore sia questo: uno che alla fine risponde “Sì, posso!”.

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  5. Il gioco dei giochi! Da bambina sono stata di tutto, in particolare negli anni in cui avevo a disposizione un grande giardino… la letteratura è dunque la continuazione del gioco? Beato lo scrittore che non smette mai di giocare.. e beato il lettore che si lascia coinvolgere nel gioco! Perché non tutti i lettori, secondo me, ne sono davvero capaci.. troppo cinici e smaliziati per credere, cancellerebbero Fantàsia nel Nulla (altro che Bastian… caspita, quanto mi impressionò La Storia Infinita). E gli scrittori? Riescono tutti a sospendere la credulità? Io credo proprio di no. E quella non è letteratura, ma fiction, secondo me.
    Un saluto,
    Della
    ps: mi sono permessa di citarti nel mio ultimo post, se la cosa dovesse infastidirti fammelo sapere, sai, io non mi intendo molto di netichette…

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  6. @ Danilo: suona sempre più come un libro che dovrei leggere… ma per me Stephen King è come le farfalle, è *davvero* meglio se sto alla larga. Sigh.

    @ Della: secondo me c’è davvero poca gente che non abbia la sua “storia debole”, quella a cui non crede affatto, ma si lascia trascinare per un paio d’ore, perché sì. Pare che Stalin piangesse a teatro davanti a un dramma di Bulgakov, pensa un po’ tu!
    E figurati se m’infastidisce la citazione. Grazie mille, anzi!

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