Nell’episodio precedente…
♫
DON CARLO
Si, t’amo, e Dio ci guidò,
Vivrò per te, per te morrò!ELISABETTA
Se Dio ci guidò,
Se a me t’avvicinò,
I fè perchè ci vuol felici appieno.
Un giovane amore… spezzato sul nascere!
♪
ELISABETTA
Tutto sparve…DON CARLO
Sorte ingrata!ELISABETTA
Al dolor son condannata!DON CARLO ED ELISABETTA
Spariva il sogno d’or!
Svaniva dal mio cor!
Una grande amicizia…
♫
DON CARLO E RODRIGO
Dio, che nell’alma infondere
Amor volesti e speme
Desio nel cure accendere
Tu dei di libertà.
Una donna gelosa…
♪
EBOLI
(Fra sè)
Amor avria per me?…
Perchè lo cela a me?
Il dovere di una regina…
♫
ELISABETTA
Perchè, perchè accusar il cor
d’indifferenza?
Capir dovreste questo nobil silenzio.
Il dover,
come un raggio al guardo mio brillò.
Guidata da quel raggio io moverò.
La speme pongo in Dio, nell’innocenza!
La terribile solitudine del potere…
♪
FILIPPO
Del capo mio, che grava la corona,
L’angoscia apprendi e il duol!
E l’ombra minacciosa del destino…
♫
FILIPPO
Ti guarda dal Grande Inquisitor!
Potere, amore, lealtà, amicizia, fiducia, gelosia, dovere…
Er. Sì, d’accordo è possibile che mi sia lasciata prendere un nonnulla la mano. Ve l’avevo detto che questa è la mia opera prediletta?
Ma riprendiamo là dove ci eravamo fermati, ovvero con il sipario che si apre sul…
Terzo Atto
Siamo tornati a Madrid, nei giardini della Regina a Palazzo Reale. In origine qui era il posto del balletto. Il Don Carlos, l’abbiamo detto, era nato per l’Opéra di Parigi, e tutto quel che si rappresentava all’Opéra comprendeva un balletto. Siccome in un modo o nell’altro bisognava cacciarlo nella trama, Verdi aveva immaginato che, durante una festa a corte, si danzasse la storia de La Peregrina, un’ enorme e celeberrima perla che Filippo II aveva l’abitudine di regalare alle sue mogli. A un certo punto, la Regina si annoiava e, scambiando maschera e domino con la Eboli, si ritirava di nascosto per andare a pregare. Er… sì.
Nelle rappresentazioni moderne il balletto non si vede pressoché mai, nemmeno nelle più filologiche delle versioni in cinque atti – il che non è gran motivo di disperazione, se lo chiedete a me. Se andate all’opera, vedrete l’atto iniziare con Don Carlo che vaga estatico per i giardini semibui, seguendo le vaghe indicazioni di un billet doux che ha ricevuto nel pomeriggio e, quando vede una figura di donna tra gli arbusti, le corre incontro apostrofandola nelle più tenere e inequivocabili maniere. 
Ed è qui che ci vien da dolerci che, insieme alle danze, si poti sempre anche lo scambio di maschere e mantelli che dicevamo… Perché va bene che l’amore è cieco e che a mezzanotte c’è buio, ma come fa il nostro eroe a non accorgersi che l’affettuosa mittente del biglietto, così preoccupata di metterlo in guardia al Rodrigo, neo-favorito del Re, non è la Regina ma la Eboli? A parte tutto, non nota nemmeno che all’improvviso si è messa a cantare da mezzo… Solo quando lei si leva il velo nota l’abbaglio e comincia a rimangiarsi tutti i teneri nonnulla che le ha sussurrato. Eboli non è stupida, e non tarda a fare due più due:
Quelle parole ardenti
Ad altra credeste rivolger illuso…
Qual balen! Qual mister!
Voi la Regina amate…! Voi…!
Si metterebbe male se, molto a proposito, non si precipitasse in scena Rodrigo, che dapprima cerca di far passare la tesi dell’infermità mentale (di Carlo), poi minaccia di sgozzare la furibonda Eboli sul campo, e poi ci ripensa e la lascia andare, perché ha un’altra e migliore idea. In un debole sussulto di buon senso, Carlo è tentato di diffidare delle buone idee di Rodrigo – che oltretutto è diventato il favorito del Re, ma il nostro Marchese è maestro nel ricatto morale: sgrana gli occhi, prende un’aria ferita e, con voce spezzata, vuol sapere se Carlo dubiti di lui… Figurarsi. Carlo, commosso e contrito, nega furiosamente e consegna a Rodrigo tutte le “carte importanti” che ha addosso. Il tema del giuramento d’amicizia risuona, e questa volta i suoi ottoni trionfanti hanno un che di vagamente minaccioso. Mentre i nostri due giovanotti si abbracciano ed escono in direzioni opposte, noi dubitiamo. Oh, se dubitiamo…
Ma spostiamoci nella piazza di Nuestra Señora de Atocha. Sì, c’è il sole, ma non facciamoci ingannare dall’apparenza di festa: si festeggia l’incoronazione di Filippo, ma la si festeggia con un bell’auto da fè. Siete inorriditi? No, non intendo per gli eretici alla brace, ma per l’incoronazione – visto che nel 1568, anno in cui si suppone che l’opera sia ambientata, Filippo era già sul trono da dodici anni… E per una volta non è nemmeno colpa del pur storicamente vago Schiller: a Verdi pareva che a questa storia mancasse qualche grande scena di popolo, e allora aveva più o meno imposto l’incoronazione-cum-rogo. Che viene perfetta perché Carlo possa farsi notare, trascinando davanti al suo inflessibile padre una manciata di terrorizzati deputati delle Fiandre.
Ops…
Filippo, inutile dirlo, non è contento. Nonostante la crescente simpatia del popolo e della Regina, respinge con sdegno le suppliche dei Fiamminghi, e con qualcosa di simile al sarcasmo la richiesta di Carlo di essere nominato governatore del Brabante e della Fiandra. E onestamente, siamo seri: al suo posto avreste affidato a costui da governare anche soltanto un pollaio? Tanto più che Carletto procede a dimostrare la sua affidabilità sguainando la spada e servendosene per minacciare il Re… Comprensibilmente poco impressionato, Filippo ordina che si disarmi lo sciagurato – ma che succede? Le guardie esitano, i Grandi di Spagna esitano… Filippo va per fare da sé, e Carlo fa per alzare il ferro su suo padre, quando qualcuno si mette di mezzo. Indovinate chi?
O ciel! Tu, Rodrigo…!
trasecola sgomento Carlo. E noi sobbalziamo insieme al coro: Ei! Posa! Ebbene sì. Lo spargimento di sangue reale è evitato, Carlo è arrestato, Filippo è grato e padrone della situazione. Nel giro di due battute crea duca uno scombussolato Rodrigo e, fatti rimuovere Carlo e i suoi Fiamminghi, ordina di riprendere là dove ci si era interrotti: accensione delle pire, tetro coro del Sant’Uffizio ed eretici flambés – confortati da una Voce dal Cielo.
La fiamma s’alza dal rogo. Cala lo tela.
Atto Quarto
Eppure, sapete che vi dico? Non è detto che Filippo sia poi così monoliticamente
sicuro come ci era parso in piazza. Magari il dubbio ci era già venuto sentendolo duettare con Rodrigo, ma adesso lo scopriamo a vagare solo e insonne per i corridoi del palazzo… In una delle più meravigliose arie per basso di tutta la storia dell’opera lirica, Filippo ci apre il suo cuore. Lamenta la terribile solitudine del potere, il dubbio che non può fare a meno di nutrire per tutti coloro che lo circondano, la tristezza per l’incapacità della sua giovane moglie di amarlo… E qui potremmo aprire una parentesina per notare che, storicamente, Filippo, non era affatto un vegliardo canuto quando sposò Elisabetta, e aveva appena più di quarant’anni nel 1568. Ma il “crin bianco” era una tradizione consolidata, e non solo in Schiller: anche Alfieri, l’abate di Saint-Réal e tutti quanti ci dipingono il povero Filippo in età geriatrica, e tant’è. 
Ma torniamo a noi: a interrompere i magnifici rimuginamenti di Filippo arriva il Grande Inquisitore, terribile cieco nonagenario. Inizia qui un duetto veramente titanico. Con parole che, nell’originale francese*, sono quanto di più fedele a Schiller si trovi nel libretto, e con musica cupa e potente oltre ogni dire, questi due formidabili vecchi duellano incarnando potere temporale e potere religioso. Filippo non sa bene che fare di Carlo, e l’Inquisitore lo esorta allegramente a sbarazzarsene in modo drastico. Se Dio ha sacrificato suo figlio per il bene dell’umanità, perché non dovrebbe farlo il Re di Spagna? E Filippo acconsente, persino un po’ sollevato – ma non è finita. L’Inquisitore vuole un’altra testa, oltre a quella di Carlo: quel mezzo eretico e sovvertitore di equilibri, il signore di Posa, deve morire. E qui sì che Filippo insorge: se ha potuto condannare a morte con sufficiente equanimità il figlio di sangue, le cose cambiano quando si tratta del figlio del suo cuore – sentimenti, gli fa notare l’Inquisitore, del tutto inadatti a un sovrano. Di fronte alla minaccia di una frattura tra corona e Inquisizione, Filippo cede molto, molto a malincuore.
Dunque il trono
piegar dovrà sempre all’altare!
conclude amaramente, mentre l’Inquisitore si ritira.
Ma ecco che irrompe Elisabetta, furiosa perché qualcuno ha osato rubarle un portagioie, e vuole giustizia dal Re. Ma si dà il caso che il portagioie ce l’abbia proprio Filippo, che lo apre e ci trova dentro una miniatura di Carlo – quella del I atto. Elisabetta si offende a morte per l’atto e per i sospetti ingiustificati, Filippo le dà dell’adultera, lei sviene, lui chiama aiuto e – come se non ci fosse nessun altro in tutto il palazzo – accorrono Rodrigo** e la Eboli. Segue quartetto in cui: a) Elisabetta si riprende; b) la Eboli annuncia di sentirsi in colpa; Filippo si pente di avere sospettato; Rodrigo decide che è il momento di agire. E gli altri capiamo dove sono, ma perché la Eboli si sente in colpa?
Non appena i due uomini si ritirano, la bella monocola si affretta a confessarlo a Elisabetta e a noi tutti: è stata lei a rubare il portagioie. E perché? Gelosia: amava Carlo e Carlo l’ha sprezzata. Elisabetta sarebbe anche pronta a perdonare, ma c’è un altro piccolo dettaglio: la Eboli è stata per anni l’amante del Re…
Ecco, questo non si può perdonare. Elisabetta bandisce prontamente la Eboli – esilio o chiostro a sua scelta. Pentitissima e disperata per avere rovinato la reputazione della Regina, la principessa esce di scena con un’aria fiammeggiante e un’incoerente decisione di salvare Carlo. Voglio dire: come fa a sapere che il Re lo ha condannato a morte? La maggior parte dei registi risolve la questione facendole trovare il decreto di condanna sul tavolo di Filippo, mentre lamenta la vanità e l’orgoglio che le hanno fatto rovinare tutti quanti.
Ma noi, intanto, andiamo a trovare Carlo nella sua prigione – in genere qualche tetro sotterraneo semibuio, dove lo troviamo seduto per terra in preda alla depressione più nera. E così lo trova anche Rodrigo, venuto a congedarsi da lui. Come a congedarsi? Eh sì, perché, con atto di dubbia saggezza, ha usato le carte che Carlo gli aveva dato nel III Atto per far ricadere su di sé tutti i sospetti: adesso è lui il fiero agitator delle Fiandre – e anche il supposto amante della Regina.*** 
Questo non scagiona affatto Elisabetta? Pazienza. E comunque nel portagioie della Regina c’era il ritratto di Carlo? Fa nulla. Ed è stato Carlo a portare i Fiamminghi all’auto da fè? Dettagli.
A suo credito, anche Carlo è sconcertato come lo siamo noi, e vuole andare dal Re a chiarire tutto… ma Rodrigo lo ferma. Flanders need you, gli intima…
No, ti serba alla Fiandra,
ti serba alla grand’opra.
Tu la dovrai compire. Un nuovo secol d’or
rinascer tu farai; regnare tu dovevi
ed io morir per te.
E non ci si lascia nemmeno il tempo di dubitare che Carletto sia in grado di compire alcunché – men che meno far rinascere secoli d’oro. Un colpo d’archibugio risuona, e…
Cielo! La morte! per chi mai?
esclama Carlo, atterrito.
Ecco, questo è il bit che cito sempre a sostegno della mia teoria-per-gioco sull’insufficienza cranica dei personaggi tenorili. Voglio dire: siete in due, lì dentro, e tu stai benone… per chi diamine vuoi che fosse?
E infatti…
Per me…
mormora utilmente Rodrigo, un istante prima di cadere tra le braccia di Carlo. E pur con un’archibugiata tra le costole, riesce a passare parola per un appuntamento con Elisabetta e a congedarsi con un’ultima e commovente aria, in cui supplica Carlo di non dimenticarsi di lui e di quel che ha fatto – e poi muore, e il pubblico è libero di commuoversi.
Ma il povero Carlo non è nemmeno libero di piangere in pace, perché arriva Filippo, a restituirgli la spada e liberarlo – perché ha creduto alle manovre di Rodrigo. E Carlo cosa fa? Per primissima cosa spiattella tutto a Filippo: altro che tradimento, altro che cospirazione, è morto per salvare me! Il che vanifica del tutto la morte del povero Rodrigo – e ok, era già condannato, ma lui non lo poteva sapere. Cosa dicevamo dei tenori?
Ma non distraiamoci, che il momento è pieno di pathos. Angoscia di Filippo, che in Schiller è lacerato tra l’incredulo dolore per il tradimento dell’uomo che considerava un figlio e il rimorso per averlo lasciato morire,**** e invece in Verdi si limita al rimorso – e qui arriviamo a quello che, a mio timido avviso, è l’aggiustamento più criminale tra i molti che segnano la storia di quest’opera. A questo punto, in origine, c’era una meravigliosa scena in cui Filippo e Carlo si addoloravano all’unisono, e il coro faceva corona (piuttosto seccato, a dire il vero). È un pezzo di una bellezza straordinaria – e fu tagliato prima della prima, perché l’opera era troppo lunga e i Parigini rischiavano di arrivare a casa troppo tardi.
Vi par possibile? Il balletto era sacro e intoccabile, ma la trenodia si poteva benissimo potare… No, in realtà c’erano altre ragioni – tipo il fatto che il pezzo era un po’ al di sopra delle possibilità del primo Carlo, il tenore Morère. E poi pare che il primo Rodrigo, Jean-Baptiste Faure, non fosse per nulla contento di restarsene sdraiato in scena mentre gli altri cantavano… Fatto sta che la trenodia fu tolta – e Verdi la riciclò anni più tardi per il Lacrymosa del Requiem. Però nowadays capita di sentirla qua e là in qualche produzione della versione in cinque atti – e secondo me il finale d’atto ne guadagna moltissimo.
Perché sì, siamo in finale d’atto, ormai: c’è spazio per una fulminea rivolta popolare, prontamente sedata dall’arrivo del Grande Inquisitore***** – ma non prima che la Eboli approfitti del trambusto per far fuggire Carlo – e poi il sipario cala. Le cose si mettono male per i nostri eroi, vero? Ma hanno tutto il tempo di peggiorare nel corso del…
Quinto Atto
Questo è breve. Elisabetta è a San Yuste. Aspetta Carlo e intanto fa conversazione con la tomba di Carlo V. Arriva Carlo, che si ferma a salutare sulla via della Fiandra. La morte di Rodrigo l’ha maturato: adesso ama Elisabetta solo di un purissimo e ideale amore, ma il suo cuore e il suo destino sono nelle Fiandre da liberare – cosa che Elisabetta ammira enormemente. Ma mentre si abbracciano per l’ultima volta, ecco arrivare Filippo, con l’Inquisitore e il Sant’Uffizio al seguito. E adesso va’ a spiegare a tutta questa gente che non è come sembra. Le guardie circondano Carlo, ma… che succede? Di chi è la voce che si sente echeggiare?
L’INQUISITORE
É la voce di Carlo!CORO
É Carlo Quinto!FILIPPO
(Spaventato)
Mio padre!ELISABETTA
O ciel!
Il frate corifeo del second’atto ricompare – ma sotto il saio porta una corona imperiale. Tutti indietreggiano sconvolti, e il fantasma, in paio metafisico con la Voce dal Cielo, trascina via Don Carlo mentre, lentamente, cala la tela.
E sì, è un finale dissennato, ma a Verdi piaceva tanto.
Nonostante il pio corruccio dell’Imperatrice Eugenia alla prima, e nonostante le perplessità di quei critici che tacciarono il compositore di wagnerismo, il Don Carlos fu un successo. In anni successivi cominciarono le modifiche, i tagli, gli aggiustamenti, le traduzioni e le ricuciture, e ancora oggi l’opera va in scena in una quantità di forme diverse, in due lingue e in un numero variabile di atti, cupa e scintillante, gonfia e raffinatissima, illogica e strappacuore – forse il più affascinante capolavoro della maturità verdiana.
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* La traduzione italiana, alas, è lardellata d’improbabilità come “L’infante è un gran ribelle, armossi contro il padre…” Sospirone.
** Abbiate pazienza, devo mettervi a parte di un minuto e meraviglioso particolare della regia parigina di Bondy: a questo punto, Filippo (José Van Dam) è inginocchiato sul pavimento accanto a Elisabetta (Karita Mattila) svenuta. La Eboli (Waltraud Mayer) soccorre la Regina, e Rodrigo (Thomas Hampson) offre la mano al Re per aiutarlo a rialzarsi. Filippo fa per accettare, ma poi si blocca, distoglie lo sguardo e si alza da solo – e noi capiamo che non riesce a stringere la mano dell’uomo che ha appena abbandonato all’Inquisizione. È una delle tante, acutissime minuzie di cui è ricco questo Don Carlos del Théâtre du Châtelet.
*** Secondo Bondy, molto schillerianamente, Carlo non crede più a Rodrigo – il che rende ancora più strappacuore tutta la scena.
**** Ma d’altra parte, in Schiller è Filippo a far archibugiare Rodrigo nelle segrete – cosa che l’Inquisitore poi gli rimprovererà come una mossa goffa e avventata. E non parliamo neppure del film muto del 1925, in cui Filippo spara di persona al povero Marchese…
***** Altra gemma bondiana a questo punto. Ne abbiamo già parlato qui.
Quest’opera esiste in quattro e in cinque atti, in Italiano e in Francese, con i balletti, senza balletti e in ogni possibile combinazione delle precedenti, è stata scritta, potata, riscritta, rivista, tradotta e ritradotta, accorciata, modificata – ed è, in tutta probabilità, la mia opera preferita.
perdutissimamente.
Ma spostiamoci un istante qui fuori, nel giardino del convento dove, in una delle pochissime scene soleggiate di quest’opera, le dame della regina si annoiano a morte in attesa dei sovrani. A vivacizzare l’atmosfera pensano il paggio francese di Elisabetta e l’ardente (pur se monocola) Principessa di Eboli, che cantano una ballata saracena di sultani infedeli e mogli astute… 
È il 1861 quando capita che il Teatro Imperiale di Sanpietroburgo (il futuro Marjinski) chieda a Verdi un’opera. L’incarico è prestigioso, e Verdi accetta di buon grado – ma quale opera? Il teatro propone il Ruy Blas di Hugo, subito scartato per ragioni di censura, e allora, Spagna per Spagna, Verdi propone Don Alvàro, o La Fuerza del Sino, drammone iperromantico e affollato dello spagnolo duca di Rivas. E i Russi accettano, così Verdi si rivolge al vecchio amico Piave (povero Piave!) per un adattamento. 
Ma Raffaele, c’informa Melitone, è non poco squadrellato, e troppo preso da digiuni, cilici e penitenze per occuparsi di qualcosa di così prosaico come la minestra dei poveri. Vi viene il dubbio di chi possa essere? Alla fine, i mendicanti se ne vanno più o meno soddisfatti, e si bussa alla porta. È un misterioso e arrogante cavaliere, che viene a cercare proprio Padre Raffaele. E scommetto che nessuno si sorprende nello scoprire, quando i due s’incontrano, che il frate è Alvaro e il cavaliere Carlo. Ecco che ci siamo. Alvaro/Raffaele in un primo momento rifiuta di battersi – per l’abito che porta, per la pace che cerca, per l’umiltà che ha accettato… chiede perdono, e s’inginocchia, e supplica. Ma lo sapete come sono questi nobiluomini spagnoli una volta che si sono intestarditi in una vendetta: Carlo insulta, vilipende e schiaffeggia, finché Alvaro getta alle ortiche i suoi scrupoli, e i due corrono offstage a battersi.
Questa faccenda era partita come Gustavo III, sulla base di un omonimo e francese libretto di Scribe, poi italianizzato da Antonio Somma. Solo che, capite, c’erano faccende (peraltro piuttosto storiche) di corna, stregoneria e regicidio – in ordine di gravità crescente, I believe – tutte cose che rovinavano la digestione ai censori di Napoli, per il cui San Carlo l’opera era stata scritta. E sì, diciamolo: era un libretto imprudente. Tant’è che i censori imposero un trasloco in Pomerania of all places, e Somma obbedì producendo Una vendetta in domino, e i censori, non contenti, pretesero di mutilare la vicenda tanto che Verdi s’inalberò, e la censura proibì la rappresentazione, e il San Carlo, con cui proprio Verdi non riusciva ad andare d’accordo, fece causa al compositore per violazione di contratto, e Verdi querelò per danni, e il San Carlo ritrattò, e Verdi promise un’altra opera più avanti, e se ne fuggì a Roma, per tentare la fortuna con la censura papalina. Andò marginalmente meglio: anche a Roma pareva brutto far morire un sovrano in scena – per non parlare di una strega nella civile Europa alla metà del Settecento, ma per il resto non avevano soverchie remore… Alla fin fine Verdi e Somma se la cavarono degradando il Re di Svezia a Governatore del Massachussets e spostando il tutto al cupo e superstizioso Seicento coloniale – e così adesso sapete a chi e a che cosa dovete il nonsense esotico che adesso vi racconto. 
Andiamoci anche noi, all’antro di Ulrica, che legge il futuro in pretesa combutta con il diavolo e ha un gran seguito popolare. Riccardo, in abiti da pescatore, arriva in tempo per sentirla predire ricchezza e fortuna a un baldo marinaio – e, un po’ perché l’uomo gli ispira simpatia e un po’ perché è divertito dal senso del teatro della maga, provvede istantaneamente una borsa e un brevetto da ufficiale. Figurarsi il marinaio quando si ritrova tutto quanto in tasca, e figurarsi la folla nel veder avverare la predizione. Ma mentre tutti si rallegrano, arriva in gran segreto un uomo – che Riccardo riconosce come un servitore di Amelia. Quando la maga congeda tutti con qualche bruschezza, Riccardo si nasconde, e così assiste insieme a noi all’arrivo di Amelia. Amelia, la moglie di Renato, è arrivata a chiedere alla maga un filtro per dimenticare un amore colpevole… Ulrica dà istruzioni un tantino sinistre, e Riccardo si bea di essere riamato. 
Ad ogni modo, arrivano Tom&Samuel, più che un po’ preoccupati. Tutto s’aspettano, fuorché di sentirsi offrire la collaborazione di Renato per far fuori Riccardo. E a dire il vero, e non del tutto incomprensibilmente, non è che credano del tutto a questa inversione a U. Ci vuole che Renato dia loro in ostaggio il figlio perché si convincano. E adesso il problema è che tutti e tre vogliono vibrare di persona la coltellata fatale… Mezzo istante prima che la faccenda degeneri in una baruffa indecorosa, decidono di tirare a sorte – e per la I Legge dell’Opportunità Teatrale, chi ti arriva se non Amelia, ad annunciare Oscar*** con un messaggio del Conte? Renato costringe la moglie ad estrarre un nome da un urna – cosa che Amelia fa con i peggiori e più funesti presagi. E naturalmente estrae il nome di suo marito. E poi arriva il paggio Oscar, cinguettando di inviti dal ballo in maschera. E allora Amelia esita, e Renato invece accetta. E Amelia fa due più due, e si domanda come salvare Riccardo senza tradire Renato. E intanto i tre cospiratori, in base alla I Legge della Stupidità Operistica, si accordano per vestirsi tutti e tre dello stesso colore… ottimo per riconoscersi tra tutte le maschere, ma potenzialmente quando uno dei tre avrà agito e sarà il caso di sparire con discrezione, don’t you think? Ma d’altra parte, è una cosa che i congiurati all’opera fanno spesso – come abbiamo visto l’altra settimana nei Vespri.
Io non molto – ma gli allegri bostoniani mascherati sì. Non sono più affatto allegri mentre cercano di linciarlo, fermati soltanto dall’ordine di Riccardo che, ferito a morte, impiega l’ultimo respiro per graziare Renato, garantirgli che tra lui e Amelia era tutto platonico e dargli l’ordine che lo rispedisce in Inghilterra.
Tra il 1855 e il 1856 Verdi mette all’opera Piave (povero Piave!) su un altro dramma di Antonio Garcìa Gutierrez, lo stesso del Trovatore. 
Ma non ora. O quanto meno non in scena – perché noi ci trasferiamo a Palazzo degli Abati, nella Sala del Consiglio, dove** Simone si dichiara toccato dalla lettera con cui nessun altri che Petrarca lo supplica di non gettare Genova nell’ennesima guerra fratricida con Venezia. Sennonché non sono in molti a considerare che ci sia alcunché di fratricida nel suonarle ai Veneziani… 
Rieccoci qui – appena in tempo per il levarsi del sipario sul…
Come ci si poteva aspettare, Arrigo è macerato dai sensi di colpa e va a visitare i suoi ex-amici in prigione. Elena arriva, e non è contenta. Arrigo tenta di spiegarle, cosa che richiede qualche sforzo, perché lei non ascolta. Quando finalmente Arrigo riesce a far passare il concetto, i nostri due danno in amorose escandescenze, si perdonano a vicenda, si giurano eterno amore – e odio a Monforte, che adesso Arrigo ha ripagato della vita che gli ha datto – e poi si congedano con affettuosa commozione. Ma aspettate, ecco arrivare Procida che, avendo buoni agganci, è riuscito a sapere che una nave aragonese arriva in soccorso – e loro non ci possono fare niente… Mentre si mangia le mani, Procida vede Arrigo. Che ci fa qui? Si pente, cinguetta Elena – e quando Procida la invita a svegliarsi un po’, la sua bruschezza sembra avvalorata dall’arrivo di Monforte con i suoi, pronti a passare a fil di spada i ribelli. E Arrigo supplica la grazia, e Procida la rifiuta sdegnosamente – e ancora non sa che Arrigo è figlio…
Arrigo, da buon adolescente, corre a farsi consolare dal babbo e Monforte, sempre sbrigativo, non trova di meglio che affrettare le nozze. Poco importa che Elena resista – e qui si dimostra che non bisognerebbe mai forzare una donna a sposarsi contro la sua volontà. Considerazioni morali a parte, è chiaro che non porta bene: nel momento in cui il bronzo squilla annunciando l’avvenuta unione, Procida ed i Siciliani si scagliano su Monforte e sui Francesi, e cala la tela – ma non prima che Elena sia debitamente svenuta.
Semmai, la cosa strana è che l’opera nacque francese per l’Opéra di Parigi, e gli oppressori in questione sono… be’, Francesi. Bizzarro, vero? E in realtà Verdi stesso aveva i suoi dubbi, perché gli pareva che tutti ne uscissero male – i Francesi tonfati e gli Italiani cospiratori col coltello tra i denti – e chiese al librettista Eugène Scribe di eliminare quanto meno tutto quel che offendeva l’Italia…
nostalgia di casa, inneggiano al loro amato comandante Guido di Monforte e alla bellezza delle pur riottose Siciliane… Ma chi è la bella dama in nero che attraversa la scena velata e triste? È la duchessa Elena, in lutto per il fratello, quel duca Federico d’Austria che Monforte ha fatto decollare come traditore.
A uno sguardo del nuovo arrivato, la folla si disperde, e persino Elena rimane un po’ scossa: il disperditore di folle è Monforte – Guido di Monforte, e quando arriva lui non ce n’è più per nessuno.
Ci siamo spostati sulla spiaggia in una ridente vallata fuori Palermo, dove approda di nascosto il nobile Giovanni da Procida, esule, basso, cospiratore e zelota della causa. Anche lui e il suo coro son pieni di propositi di vendetta – ma il fatto è, come apprendiamo quando Elena ed Arrigo arrivano a titolo di comitato di benvenuto, che degli aiuti che sperava di raccogliere ne ha visti pochini. Pietro d’Aragona potrebbe appoggiare una rivolta, una volta che fosse scoppiata… Già, mugugna Arrigo, peccato che la Sicilia intera dubiti e tentenni.
Ed eccoci qua. Quando il guareschiano Don Camillo s’infiltra nella spedizione sovietica di Peppone, che opera rappresentano i Russi a beneficio degli ospiti italiani? E quando Richard Gere introduce all’opera la Pretty Woman, che cosa la porta a vedere? E a dire il vero ho sempre pensato che questa seconda fosse una scelta un po’, you know… Non dico che il paralellismo narrativo non abbia il suo perché – ma forse, se fossi un uomo e volessi portare all’opera una graziosa prostituta in via di redenzione, non sceglierei proprio la storia di una graziosa prostituta che cerca di redimersi e ci lascia le penne…

Ma mentre lui non c’è, arriva suo padre a far visita alla maliarda che gli ha corrotto il figlio – o almeno così pensa, perché i modi di Violetta non sembrano proprio quelli di una donna perduta… Né è da donna perduta il modo in cui lei sostiene di non voler accettare un franco delle ricchezze di Alfredo, e di essersi lasciata alle spalle il suo peccaminoso passato.
Alfredo convoca il coro tutto, racconta di essere stato mantenuto da Violetta perché era cieco, vile, misero – ma adesso la ripaga, perbacco! E getta addosso alla poveretta “una borsa” – che nella maggior parte delle produzioni diventa una mazzetta di banconote.
Ed è proprio a questo punto che, mentre fuori impazza il carnevale, arriva Alfredo – contrito, commosso e più innamorato che mai. E fanno piani per lasciare Parigi o cara, e Violetta vuol vestirsi, vuol andare al tempio (matrimonio lampo?) – solo che non può e, a dire il vero, a differenza della maggior parte delle eroine d’opera non è per niente contenta di morir sì giovane, e proprio adesso che ha recuperato Alfredo…
Ma intanto che aspettiamo l’orario delle battaglie, guarda chi ti arriva catturata: una vecchia zingara. E chi sarà mai? Che domande: è Azucena che, trascinata davanti al Conte, cerca d’impietosirlo con la storia del figlio ingrato e vagabondo che è venuta a cercare a piedi fin dai monti della Biscaglia. Biscaglia? Il Conte drizza subito le antenne, e chiede alla vecchia se ricordi la storia di un contino ammaliato e rapito… Azucena nega, ma si confonde – e il fido Ferrando fa due più due…
Ed eccola, Leonora, che si fa avanti per supplicare la grazia. Ora, vedete, di Baritoni Rivali In Amore ce ne sono due tipi. C’è il genere che di fronte alle suppliche del soprano si commuove e cede, e c’è quello che più lei supplica, più s’ingelosisce. Leonora impiega un po’ a costatare che il Conte appartiene alla varietà tetragona, e solo allora mette in atto il suo piano: si promette in cambio della grazia e, appena l’incredulo Conte si distrae un istante, beve (anzi, sugge) il non precisamente salutare contenuto dell’anello.
Entra il Conte, Leonora muore e poi, nel giro di dodici brevissimi versi, Manrico viene portato via***, il Conte costringe Azucena a guardare la decapitazione dalla finestra, Azucena rivela che l’ormai defunto Manrico era il fratello rapito, il Conte inorridisce, Azucena si dichiara vendicata, cala il sipario.
Non c’è nulla da fare: il Trovatore, che Cammarano cominciò a trarre da un drammone spagnolo appena un mese dopo il debutto veneziano del Rigoletto, comunica un certo qual senso di frenesia.