grillopensante · sport

Italia Slovacchia 2 – 3

Oh, cribbio! Quando i nostro hanno fatto il secondo goal, credevo proprio che ci si riuscisse ancora… Si direbbe che mi sbagliassi. Mi si dice che i nostri hanno giocato inqualificabilmente male per i tre quarti del tempo; mi si dice che forse quel goal che non si capiva bene se fosse entrato o no in realtà c’era, ma fa lo stesso*; mi si dice di starmene buona che non ne capisco niente, ed è proprio vero.

Sarà, però sono delusa. Voglio dire: se si fosse perso dopo avere giocato strabene contro qualcuno che giocava strameglio, allora sarebbe un’altra cosa. Cervantes ha un bel dire che la sconfitta è il blasone delle anime ben nate, ma avrei preferito che le anime ben nate in questione ci avessero messo un po’ più d’impegno, prima di prendere, incartare e portare a casa questo specifico blasone. Temo che stavolta nemmeno la mia inclinazione a simpatizzare con gli sconfitti funzionerà troppo.

Ci pensavo ieri, mentre guardavo la fine del primo tempo (durante il secondo c’era troppo movimento per strologare): come ogni specie vivente, siamo geneticamente programmati per tentare di prevalere, poi abbiamo elaborato, a bocconi e spizzichi, tutte queste sovrastrutture culturali che ci portano a idealizzare gli sconfitti.

StervendeGalaathoofd.jpgSe volessi dimostrare la potenza di questo modo di pensare, partirei dal fatto che la Storia appartiene – per assioma – ai vincitori. Prendiamo un esempio a caso: Annibale. Non sopravvive nessuna fonte cartaginese, e quelle giunte fino a noi sono quasi tutte di parte romana. Nondimeno, l’immagine di Annibale che ci arriva, pur filtrata attraverso gli occhi dei suoi nemici, è quella di un grand’uomo. E non è solo questione del paio di millenni di distanza: non ricordo più dove ho letto che tra gli intellettuali Romani della generazione di Plinio il Giovane era un po’ una moda tenere un busto di Annibale in casa, una sorta di tributo cavalleresco ante litteram al grande nemico sconfitto.

Tutti ci commuoviamo sulle Termopili, su Masada e su El Alamein, tutti ammiriamo i Finlandesi sconfitti nella Guerra d’Inverno, i difensori di Costantinopoli e di Forte Alamo, i Polacchi repressi a turno da Austriaci, Russi e Tedeschi, tutti simpatizziamo con i Giacobiti e i Vandeani, tutti adoriamo Don Quixote e Cyrano di Bergerac, tutti troviamo che Napoleone, Riccardo III e Alessandro trovino la loro massima grandezza (o una forma di redenzione, a seconda dei punti di vista) nella sconfitta.

Millenni di etica della guerra e poi di Cristianesimo, più diversi secoli di letteratura, hanno modellato un’immagine di grandezza della sconfitta, una visione eroica che si estende poi anche allo sport. Vorrei ricordarmi meglio la storia di un atleta olimpico che, dopo avere battuto di misura un avversario che rispettava, fece tagliare in due la sua medaglia e ne inviò metà allo sconfitto. Come dire? In pratica, l’onore delle armi.

Quello che avrei voluto veder meritare dai nostri calciatori ieri pomeriggio, anche se non capisco nulla di calcio.

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* Sì, confesso che questa cosa non la capisco proprio: come può fare lo stesso se un pareggio avrebbe potuto tenerci in gara? Ich nicht verstehe.

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Italia – Paraguay 1 a 1

So di avere già postato in materia, ma devo ribadire e aggiungere qualche cogitazione.

Premettiamo che la mia conoscenza del calcio, se vogliamo proprio chiamarla così, è completamente basata su una manciatella di partite Italia-Qualcun Altro una volta ogni quattro anni, e si può descrivere nel modo seguente: mi agito quando c’è melée davanti a una porta, e capisco se è la nostra porta o quella altrui dal colore della maglia del portiere. Fine.

Ciononostante, una volta ogni quattro anni riscopro il fascino e il dramma insiti nel guardare ventidue energumeni in mutande che rincorrono una palla. Ieri sera guardavo Italia-Paraguay, e mi sono accorta che mi mangiavo le unghie. Ho trattenuto il fiato, sobbalzato, incitato, strillato (spaventando a morte il povero Udrotti…), ci sono rimasta malissimo quando il Paraguay ha segnato, ho esultato quando hanno segnato i nostri e ho sperato fino alla fine che segnassero ancora. Gente più saggia di me ha detto che tutto sommato va bene così, che l’Italia ha giocato bene e che non era poi così importante vincere stasera… sarà anche vero, ma per me, che non distinguo le finezze di un buon gioco e non ho la più pallida idea di come funzioni un girone, la partita di stasera si riduceva a una faccenda puramente istintiva, e l’istinto era di quel genere che vuole la vittoria, non il pareggio.

Tutto questo è interessante dal punto di vista di qualcuno che scrive spesso di battaglie. Voglio dire, per forza di cose (e, sospetto, per mia fortuna) non farò mai esperienza diretta di una battaglia. Se voglio vedere da vicino l’istinto di prevalere, lo scontro, la folla che perde la testa, si entusiasma o s’infuria, dove la posso trovare? A una partita di calcio o al Palio di Siena, immagino. Pasolini diceva che il calcio è l’ultima vera rappresentazione sacra del nostro tempo, e posso anche essere abbastanza d’accordo. Ancora di più, però, penso che sia – insieme a un certo numero di altri sport – un sostituto socialmente accettabile della guerra, un terreno per sfogare e convogliare istinti che non si possono (né dovrebbero) eliminare dalla natura umana.

Tutto ciò fa di una partita di calcio un’esperienza estremamente istruttiva per uno scrittore, e nemmeno su un piano solo, visto che consente non soltanto di osservare all’opera certi meccanismi primari, ma anche – con un minimo d’impegno o anche senza – di sperimentarli direttamente su se stessi.

Quindi intanto si prosegue con i Mondiali, ma l’autunno prossimo voglio proprio affrontare i perigli dello stadio e andare a vedere come funziona per davvero, non sulla poltrona del soggiorno e con il gatto sulle ginocchia.