Che poi, a dire il vero, quel che mi attira molto più delle conversazioni altrui al caffè, e anche dei mezzaloghi al telefono, è la Battuta di Dialogo Isolata. Quelle cose che si sentono passando sotto una finestra aperta, o attraversando in fretta uno scompartimento ferroviario, o quando qualcuno alza momentaneamente la voce sulla scala mobile che va nell’altro senso.
Una singola battuta, un richiamo, una domanda, un insulto, metà di una considerazione… E le domande partono, come uno sciame di scintille: chi è questa persona? Che cosa ha in mente? Perché ha detto così? A chi lo stava dicendo? Perché l’ha detto in quel modo? A che cosa stava reagendo? Che reazione ha provocato? Che cosa è successo prima? Che cosa è successo dopo? Che accento, che colore, che cadenza, che sottotesto, che implicazioni aveva la battuta? E se la estrapolassi dal contesto evidente e la spostassi in un altro tempo e luogo? Se non fosse una ragazzina in jeans a dirla, ma qualcun altro, altrove, altrimenti, in altro tempo? E via dicendo e – se non sto attenta – mi ritrovo con una storia tra le mani.
Oppure la conversazione incidentale.
Succede nei film, qualche volta – e più spesso nella scrittura televisiva. Per dare l’impressione di un posto affollato o vissuto, due comparse di passaggio scambiano una battuta che non ha rilevanza per la trama. Oddìo, potrebbe anche averla, in teoria, ma è rischioso perché è difficile farlo in maniera sottile… Ad ogni modo, non importa. Per lo più la conversazione accidentale serve a caratterizzare l’ambiente. Alle corse dei cavalli si parlerà di scommesse, su un camminamento di ronda ci si scambiano parole d’ordine, in un bar si ordina un caffè, e cose così. Non dovrebbe essere nulla su cui stropicciare i neuroni – e però non me lo so impedire. Sento una di queste frasi da buttar via, e comincio: chi è questa persona? Che cosa ha in mente? Perché ha detto così…?
Per dire, ho in mente questa scena – e non ho idea di che cosa fosse parte: la porta di un ascensore si apre, e ne escono due donne sulla trentina, una bionda e una bruna. “Io credo che dovremmo andare,” dice la bruna, mentre passa oltre con la sua amica muta, e i protagonisti (chiunque essi siano) salgono sull’ascensore, diretti a fare qualcosa di terribilmente rilevante. Magari a salvare il mondo, o a vincere una causa milionaria, o a uccidere – ma proprio non me ne ricordo. Quel che mi ricordo sono le due donne e quel frammento di conversazione: “Io credo che dovremmo andare.”
Dove dovrebbero andare? Un’udienza in tribunale? Un viaggio di lavoro? Un altro studio legale? Un cocktail party? Una conferenza internazionale? Un matrimonio? Una visita in ospedale? Perché la bionda non è d’accordo? O è soltanto incerta? Perché si stanno consultando? Che cosa dipende dal fatto che vadano o non vadano? Si tratta di andare entrambe o non andare affatto? In che rapporto sono queste due? Amiche? Parenti? Colleghe? Capo e sottoposta? Nemiche giurate? Rivali professionali? E quel pronome iniziale, “Io credo…” è un eccesso di zelo del traduttore o è davvero rilevante? Significa “Io, diversamente da te, credo che dovremmo andare” a vedere un’altra volta la scena del delitto, o è semplicemente “Credo che dovremmo andare…” se non vuoi perdere il discorso di saluto?
Ecco, visto? E non ho nemmeno cominciato con gli spostamenti di luogo e di tempo.
È la natura della Battuta Isolata. Se ne sta lì, sola soletta, e luccica in mezzo alla nebbia… Non ricamarci attorno una storia richiederebbe un tipo di forza d’animo che io, in tutta sincerità, proprio non possiedo.