scrittura · teorie · tradizioni

Prima che si chiuda il sipario…

E questa volta non inizierò il post con una stupefatta constatazione su come – oh dear! – sia già la fine di dicembre, di come gennaio sia già dietro l’angolo… no, stavolta non lo farò affatto.

Inizierò invece osservando come, d’abitudine, qui su SEdS si facciano bilanci e consuntivi alla fine di novembre, perché con novembre d’abitudine finisce il mio Writing Year. Dicembre è per le carole, il pudding, il piccolo artigianato natalizio, gli ospiti e la generale frenesia festiva… d’abitudine.

D’abitudine – ma non quest’anno.

Quest’anno si è scritto anche a dicembre: la dodicesima storia, cose per il teatro, altre faccende piuttosto promettenti, di cui spero potremo parlare presto… non che si sia scritto tutti i giorni – anzi: il mio calendario di scrittura ha tanti buchi che sembra colonizzato dalle talpe. Però si è scritto un po’, ed è più di quanto abbia scritto in dicembre da non so quanti anni a questa parte. Mi è piaciuto scrivere in dicembre? Ni… Non ho mai obiezioni a scrivere un po’ di più, sia chiaro – ma farlo in questa maniera “quando si può” mi mette un nonnulla d’ansia. O meglio: l’ansia non me la mette affatto scrivere “quando si può”: è non scrivere quando non si può che mi getta in qualche genere di sconforto… All else apart, avevo deciso di infilare in dicembre un ulteriore piccolo adattamento – e non l’ho fatto. Non ho nemmeno iniziato, nemmeno creato il file all’uopo in Scrivener. E badate, era una decisione del tutto irragionevole: non so come potessi pensare di farcela… A un certo punto è stato irrevocabilmente chiaro che non ci sarei mai riuscita e ho accantonato l’idea – il che è stato un anno di buon senso, ma non la più piacevole delle cose. Quindi non so dire come andrà l’anno prossimo – ma di certo, se mi deciderò per un altro Writing December, le cose andranno programmate meglio.

Per il resto… non posso nemmeno fare i conti con i buoni propositi di quest’anno – perché ai primi di gennaio ero talmente influenzata che non li ho nemmeno fatti. Si direbbe che per il 19 abbia navigato a vista.

A meno che non consideriamo un buon proposito le dodici storie – e allora ci siamo, perché le ho scritte. Tutte e dodici. Qualcuna meglio, qualcuna peggio – ma ci sono.

E non solo le storie, perché ho scritto con una certa intensità, quest’anno. La mia prima sceneggiatura cinematografica feature-length, che alla fine dei giochi è troppo, troppo, troppo lunga. Dovrò sfrondarla, o cambiare prospettiva in qualche modo, o trovare la maniera di ridurla a dimensioni accettabili. Ecco un’altra cosa da fare per il ’20.  E poi tre traduzioni/adattamenti – di varie dimensioni, di vari argomenti, da varie lingue – tutti destinati ad andare in scena nell’anno nuovo. Ne parleremo di volta in volta.

E poi c’è quest’altra cosa… non posso ancora scendere in dettagli – o a dire il vero non so se posso, ma diciamo che ancora non voglio… anche di questo parleremo ma, per farla breve, ho cominciato a mandare Là Fuori il mio romanzo, e ci sono stati sviluppi di natura inaspettata, e la cosa ha condotto a scrivere parecchio, e chi può dire che cosa abbia in serbo il fato capriccioso? Ecco – so che non è spettacolarmente chiaro – ma per ora mi fermo qui.

E non è come se potessi lamentarmi nemmeno del lato teatrale delle cose: una serie di commissioni andate a buon fine, la mia prima piccola regia autonoma in Campogalliani con Caramelle per la Piccina, il felice e richiestissimo ritorno sulle scene di Canto di Natale…

Un buon anno, nel complesso.

Se proprio volessi lamentarmi di qualcosa, potrei mormorare che sono uscita poco dalla mia zona di sicurezza. A meno di voler considerare escursioni i diversi racconti di ambientazione contemporanea nella mia dozzina di storie… so che non sembra – ma per me scrivere robe contemporanee è davvero poco confortevole. Nondimeno l’ho fatto, e più di una volta – e quindi, tecnicamente… ma non mi pare che basti. Bisogna far di meglio, non vi pare?

Otherwise, un buon anno, nel complesso. E voi, o Lettori? Soddisfatti del vostro Diciannove?

Adesso c’è questo Venti pronto da spacchettare… Anno nuovo, decade nuova. Ah well. Rimbocchiamoci le maniche e diamoci da fare!

 

Storia&storie · teorie · tradizioni

Arcobaleni

Gli arcobaleni sono come il cioccolato e le Olimpiadi: c’è davvero qualcuno a cui non piacciono?

Chi di noi non ha, almeno una volta nella vita, puntato il dito ed esclamato in delizia e meraviglia per questo specifico fenomeno di rifrazione? Chi non ha ammirato i colori, cercando il punto in cui il verde diventa giallo? Chi non ha sorriso, e proposto per scherzo a qualcuno di andare a cercare la pentola d’oro ai piedi dell’arcobaleno?

Leggenda irlandese, questa, scivolata qui attraverso libri e film – una delle tante, in realtà. Non c’è civiltà, non c’è tradizione, non c’è corpus di miti che non abbia qualcosa da dire in proposito. Non che ci sia da sorprendersi: la relativa eccezionalità, la vivacità visiva, la forma – tutto cospira a fare dell’arcobaleno un simbolo perfetto, non vi pare?

E allora ecco Iride, messaggera divina nell’Iliade, e l’arcobaleno post-diluvio nella Genesi, e le masse di colori che annunciano a Gilgamesh quando gli dei sono d’accordo… Dopodiché, in aggiunta ai colori, c’è la forma: l’arcobaleno è l’arco del dio indù Indra, il ponte celeste degli dei creatori giapponesi, il Bifröst tra i mondi dell’universo nordico, la cintura di Tir, dio del sole e della conoscenza nel mito armeno, l’orlo del mantello del sole per gli indiani Cherokee, e tutta una varietà di serpenti per gli Aborigeni d’Australia, varie culture mesoamericane e gli antichi Estoni.

Va detto che, nelle sue incarnazioni serpentine, l’arcobaleno non è sempre particolarmente benevolo: inafferrabile e capriccioso, ha spesso a che fare con l’imprevedibilità e fondamentale indifferenza del ciclo delle stagioni.

Addirittura, sparse per l’Africa, l’Asia e l’America del Sud, ci sono popolazioni cui l’arcobaleno pare sì un portento – ma uno pessimo, oppure la livrea ingannevole di qualche demone mangiatore di bambini… In certe tribù amazzoniche, all’apparire di un arcobaleno, si nascondono i bambini e gli adulti chiudono la bocca – perché non si sa mai.

Quindi immagino che la risposta alla domanda nel primo paragrafo sia: sì, c’è davvero qualcuno a cui l’arcobaleno non piace…

Non granché in occidente, a dire il vero. Noi l’arcobaleno tendiamo a vederlo – se non più come un portento – come un segno d’incanto, oppure, at the very least, qualcosa di bello. Magari non stabile né duraturo… non ricordo quale signora Woolfiana (Mrs. Dalloway? Mrs. Ramsay?) paragoni la fugacità della vita umana al carattere effimero dell’arcobaleno, mentre Wordsworth ci vede il simbolo di un’intatta capacità di entusiasmo e meraviglia. Quando smetterò d’incantarmi alla vista di un arcobaleno, esclama in My Heart Leaps Up, sarà tempo di morire. John Masefield aggiunge all’elenco l’arcobaleno notturno – come una sorta di chimerica meraviglia, uno dei doni di una vita in mare. Anche Keats assimila l’iride al fascino, alla meraviglia e al mistero del creato – pur se solo per lamentare come la fredda scienza smonti tutto in un blando catalogo di ordinarietà…

Ma tutto sommato forse Keats si sarebbe potuto risparmiare qualche patema: non è certo di rifrazioni e di prismi e di luce scomposta che Dorothy medita quando cinguetta che Somewhere over the rainbow, il cielo è azzurro e i sogni si avverano. E lo stesso più o meno vale, seppure con una certa dose di sarcasmo, quando Oltretinozza dicono che “non è tutto unicorni e arcobaleni”, per indicare che le cose sono meno ideali di quando appaiano. Né è un caso che la bandiera arcobaleno venga spesso adottata come simbolo di pace e tolleranza e di cambiamento.

E davvero, chi di noi non ha la sua piccola mitologia personale in fatto di arcobaleni? Visti a dozzine prima di un esame risolutivo, o seguiti per gioco con qualcuno, o apparsi doppi a mo’ di ponte in circostanze particolari

Nemmeno il più accanito detrattore può negare che l’arcobaleno, così vivido e inafferrabile, abbia sempre l’aria di dover significare qualcosa. E abbiamo millenni di miti, canzoni, storie, poesie, e istanti d’incanto a provarlo.

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Vivremo Insiem, Morremo Insiem…

Francesco da Melzo e RaffaelloÈ un fatto universalmente riconosciuto che, all’opera, l’amore tende a finir male – ma diciamo la verità: non è che l’amicizia se la cavi molto meglio.

E sto parlando di amicizia maschile, per lo più, perché per quanto mi sforzi, di amicizie femminili all’opera non me ne vengono in mente molte. Well, yes – i soprani tendono ad avere delle confidenti con cui, per l’appunto, si confidano: di solito cameriere, donzelle, dame di compagnia e mezzosoprani misti assortiti, senz’altro gran uso che quello di ricevere confidenze a beneficio del pubblico. Non è del tutto impossibile che Mimi e Musetta diventino amiche prima dell’ultimo atto – ma non è che se ne veda granché; e nel Don Carlos c’è la (muta) Contessa d’Aremberg, bandita ingiustamente da corte – il che scatena una bella aria della Regina… Ma si tratta di gente e di vicende tutt’altro che centrali all’interno delle rispettive trame.

L’amicizia maschile è tutt’altra faccenda: ci sono un tenore e un baritono che si giurano amicizia e fratellanza fino alla morte – e, come dicevamo, non va mai a finir bene.

In Verdi questo genere di storia ricorre spesso.

CatturaGuardiamo per esempio La Forza del Destino, in cui Don Alvaro (tenore), nel fuggire con la morosa marchesina (soprano) uccide involontariamente il babbo di lei (basso) e poi si perde per strada la povera fanciulla – che lui crede morta, ma in realtà resta a vagare per la Spagna, abbandonata e non terribilmente stabile. Possiamo biasimare del tutto il fratello baritono, che va a caccia dell’assassino/seduttore  nell’intento di fargliela pagare? Sennonché, per farlo, si arruola sotto falso nome – e quando incontra il tenore, che non ha mai visto e che a sua volta si è arruolato sotto falso nome nello stesso reggimento, i due si piacciono subito e, prima che si possa dire “nemico giurato”, si sono già promessi eterna amicizia. Ebbene sì: da sconosciuti a fratelli d’elezione in cinque minuti – salvo poi, nel giro di un altro paio di scene, scoprire le rispettive identità e ritrovarsi nemici mortali. Duellano una volta, duellano due, e alla fine il baritono ci rimette le penne.

Potremmo obiettare che in questo caso l’eterna amicizia era stata fulmineamente* giurata sulla base di false premesse e informazioni insufficienti – ma non è come se una conoscenza più approfondita garantisse un esito migliore… 838689

Il Ballo in Maschera, anyone? Il tenore Riccardo è il governatore del Massachussets** , apprezzatissimo dai governati – ma, di fatto, talmente svagato e irresponsabile, che siamo costretti a chiederci quanta della sua popolarità si deva agli sforzi del suo assennato e vagamente ansioso braccio destro – il baritono Renato. Qui di giuramenti espliciti non ce ne sono, ma l’adorante e protettiva devozione di Renato è lampante, la maniera di consuetudine tra i due inequivocabile, e tutti sanno che Renato ha ripetutamente “versato il suo sangue” per Riccardo. Per cui, non so a voi – ma a me pare davvero brutto che Riccardo lo ricambi flirtando con la sua bella moglie… Ora, se l’adulterio vero e proprio si consumi è diventata negli ultimi anni una questione di regia – ma, anche quando il fattaccio non succede, è più per le reticenze del soprano e il tempismo dei cospiratori che per la decenza interiore del tenore… Hence, quando Renato scopre di essere stato tradito dalle due persone che ama di più al mondo, il passo da amico devoto a vendicatore furibondo è operisticamente breve. Per una volta è il tenore a soccombere alla rottura – ma è chiaro che il futuro del baritono non si prospetta per nulla lieto.

a1738f40a5e05bc25cee6d4fec0f68eeE non va molto meglio nemmeno agli amici d’infanzia – nemmeno quando non ci sono donne di mezzo. Il fatto che tra l’eponimo tenore Don Carlos e il baritono Rodrigo di Posa non ci siano padri assassinati, sorelle sedotte o mogli contese sembra promettere abbastanza bene. I due sono amici dalla più tenera età, e quando si giurano eterna amicizia nel secondo*** atto tutto ci fa pensare che non sia la prima volta. Il guaio è che Rodrigo s’illude di fare dell’instabile e molliccio Carlos un grande sovrano, ed è disposto a mentire e uccidere per questo – nonché a sacrificarsi drasticamente. Peccato che, quando Rodrigo resta fatalmente impigliato nelle sue stesse trame, a Carlo sembri bello gettar via qualunque vantaggio il suo amico gli abbia procurato facendosi uccidere – per nient’altro che il gusto di far sentire in colpa suo padre…

E non so, è probabile che, se davvero credeva che Carletto potesse regnare con magnanima efficacia, Rodrigo si sia meritato tutto quel che poteva capitargli – ma c’è motivo di pensare che nemmeno un certo grado di consapevolezza sia di grande aiuto in queste situazioni. Gunn Burden

Passiamo a Bizet e ai Pescatori di Perle: il tenore Nadir si ricongiunge al suo fraterno amico, il baritono (e capovillaggio) Zurga, proprio mentre arriva la semisacerdotessa Leila, deputata a pregare per la buona e sicura riuscita della pesca delle perle. E naturalmente entrambi i giovanotti sono attratti da lei – ma, nel rendersene conto, si giurano reciprocamente che mai, mai, mai permetteranno a una donna di separarli… E come no? Prima di subito, Nadir si precipita da Leila – la cui castità, badate bene, è essenziale al rito. Non del tutto incomprensibilmente, Zurga si sente doppiamente tradito, perché lui era davvero pronto a rinunciare a Leila per amicizia e per la sua responsabilità nei confronti dei pescatori. E nondimeno, dopo un po’ di baritonale furia, è disposto a sacrificare il villaggio e se stesso per salvare l’amico infedele e la men che irreprensibile Leila. Ora, il finale è stato rimaneggiato all’infinito – ma nessuno dubita che, accoltellato subito o condannato a morte poi, Zurga faccia una pessima fine mentre tenore&soprano se ne vanno verso il tramonto…

Impareranno mai i baritoni a non far troppo conto sui tenori? Di sicuro, noi pubblico abbiamo imparato che, quando all’opera due uomini si giurano amicizia fraterna e imperitura, la faccenda è destinata a finire nel sangue – di solito quello del baritono.

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* Nulla di più fulmineo, d’altra parte, dell’innamoramento di Calaf – che, più o meno due minuti dopo avere visto Turandot da lontano, decide che ha sofferto troppo per amore, e si lancia in una quest suicida per ottenere la mano della pericolosissima principessa… Se non altro, Don Alvaro ha salvato Don Carlo dalle conseguenze della sua imprudenza.

** And I have to wonder: non si poteva scegliere uno stato americano con un nome meno ostico (e potenzialmente meno buffo) per il melomane medio? Non mi risulta che la scelta abbia la minima ragione di plausibilità storica – e ammetto che Boston suona bene, ma… Massachussets! Salute!

*** O primo. Dipende. Lunga storia.

 

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Duelli, Capricci e Bisticci

Rupert6Questa è una storia così.

Credo di avervi detto una volta o due quanto mi piace Rupert of Hentzau, il fascinoso malvagio del Prigionero di Zanda, giusto? Ebbene, di recente mi è capitato di parlare di vecchie versioni cinematografiche del Prigioniero – e si constatava come, tra i vari Rupert, quello di Douglas Fairbanks Jr sia il più perfetto e fedele allo spirito del libro, mentre quello di James Mason… er.

E chiariamo subito che a me James Mason piace molto, però non posso fare a meno di domandarmi a chi, nel 1952, sia parsa una buona idea affidargli la parte di Rupert. Voglio dire – Rupert, che nel capitolo dodicesimo del Prigioniero di Zenda entra in scena così:

Il giovane Rupert, che aveva l’aria di un rompicollo e non poteva avere più di ventidue o ventitre anni, prese l’iniziativa e ci riferì un discorsetto elegante, col quale il mio devoto suddito e affezionato fratello Michael von Strelsau mi pregava di perdonarlo se non mi presentava di persona i suoi omaggi, né metteva a mia disposizione il suo castello – due apparenti mancanze di riguardo da imputarsi al fatto che mio fratello e alcuni dei suoi domestici erano afflitti dalla scarlattina. O così disse il giovane Rupert, con un sorriso insolente e un moto arrogante della testa ricciuta… Era bello, il mascalzone – e, stando ai pettegolezzi, aveva già turbato i cuori di parecchie signore. RupertJM2

Ecco, torno a chiederlo: a chi sarà parso bello affidare questa parte a un Mason quarantaquattrenne e fargliela interpretare con la cupa seriosità di uno junker prussiano di fronte al Rudolph Rassendyll di Stewart Granger? E sì, Rupert è pericoloso, completamente inaffidabile e matto da legare – ma sorridente e beffardo e pieno di fascino. E giovanissimo…

scaramouche-death1xE allora mi è tornata in mente un’altra storia, che non ricordo più dove ho letto. Avete presente Scaramouche, parimenti del 1952 e di nuovo con Stewart Granger, evidentemente specializzato in film in costume e duelli all’arma bianca? Ebbene l’antagonista, il malvagio marchese Noël de Maynes, è Mel Ferrer, che forse non era uno spadaccino provetto ma, possedendo una formazione da ballerino classico, si muoveva con molta eleganza. Tanto che Granger ne fu infastidito, puntò i piedi e, a quanto pare, insisté per ridimensionare il ruolo di Ferrer nel film. Addirittura, il duello si sarebbe dovuto concludere con un’agnizione e la morte del marchese (più o meno come nel romanzo, anche se con un paio di notevoli differenze), ma dietro pressioni di Granger la scena fu tagliata e Noël de Maynes lasciato vivere nella più anticlimatica e inspiegata delle maniere… Potrebbe sembrare un pettegolezzo hollywoodiano – ma c’è la foto qui sopra a sinistra, chiaramente la scena tagliata – a renderla plausibile.

E allora mi domando… E badate, proprio non lo so – ma non posso fare a meno di domandarmi: data questa avversione di Granger a essere upstaged, supponendo che avesse davvero il peso e il potere per ottenere questo genere di modifiche, e considerando che nel romanzo e nelle versioni precedenti Rupert ha questa irritante tendenza ad essere più interessante del protagonista, non può essere che il Rupert di Mason abbia subito una sorte simile a Prisoner of Zenda-James Mason and Stewart Grangerquella del de Maynes di Ferrer? Che Stewart Granger abbia fatto i capricci e ottenuto una potatura del suo fastidioso antagonista? Ed è pur vero che James Mason era un attore molto, molto, molto migliore di Granger – ma è così fuori parte e così plumbeo nei panni di Rupert, che il rischio che potesse fare ombra al protagonista era bassino. All else apart, guardate la foto qui a destra, presa sul set, con il maestro di scherma Jean Heremans che spiega la coreografia ai suoi Rudolf&Rupert… se teniamo in conto l’ovvio “sorridete per la foto”, James Mason vi sembra straordinariamente felice?

Ah well – lo ripeto di nuovo: è solo un’ipotesi e davvero non lo so – ma pare che non sia del tutto implausibile, e Stewart Granger non ne esce affatto bene. Ad ogni modo, se volete Scaramouche, guardate la versione muta del 1924 con Ramon Novarro e Lewis Stone*, e se volete Il Prigioniero di Zenda, c’è la versione del 1937 con Ronald Colman (che riesce quasi a rendere simpatico l’insopportabilmente perfetto eroe Rudolf Rassendyll) e Douglas Fairbanks Jr. E naturalmente ci sono Sabatini e Hope…

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* E, abbastanza curiosamente, Novarro e Stone erano stati i protagonisti in una delle svariate versioni cinemute del PoZ – solo a ruoli invertiti, after a fashion. Novarro, eroe in Scaramouche, era il malvagio Rupert, e il perfido marchese Stone era invece il Rudolf senza macchia e senza paura. Inultile dirlo, anche la versione muta è mooooolto migliore di quella del 1952 – ma, a parte questo, c’è una serie di bizzarre linee parallele nella storia cinematografica di queste due storie.

 

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Parodie

Oggi SEdS non mi lascia inserire le immagini – ma che ne direste se, nonostante ciò, parlassimo di parodie?

Cominciamo chiarendo che la parodia è un genere vecchio come le colline, e non è necessariamente una “versione buffa di un originale” come tendiamo a considerarla. Letteralmente, parodia significa “trasposizione imitativa”, e consiste in qualsiasi aperta imitazione di uno stile, di un genere o di una convenzione letteraria – o musicale. In pratica è una rielaborazione il cui significato poggia in buona parte sulla riconoscibilità del testo originale.

In questo senso ampio, l’Ulisse di Joyce è una parodia dell’Odissea, di cui riprende e rielabora elementi narrativi, senza il minimo intento comico o caricaturale. Tuttavia, siccome il senso più comune e diffuso è quello della versione burlesca (o satirica) di un originale, è di quello che parliamo adesso.

Se vogliamo trovare una ur-parodia, probabilmente dobbiamo rifarci alla Batracomiomachia, poemetto databile tra il V e il I Secolo a.C., parodia omerica in cui rane e topi combattono una guerra di Troia in miniatura. Per secoli, nell’antichità, la Guerra delle Rane e dei Topi era stata attribuita a Omero – con tutte le difficoltà che ne conseguivano. L’attribuzione è decaduta, ma resta il fatto che almeno fino al XII Secolo si è attribuito ad Omero un sense of humour.

La Batracomiomachia, chiunque l’abbia scritta, non era un caso isolato: ci sono giunti i titoli di svariate opere analoghe, abbastanza per dedurne l’esistenza di un genere parodistico. Come accadono queste cose? Trovo piuttosto convincente la teoria propugnata dalla scuola narratologica bakthiniana, secondo cui la parodia è un’evoluzione naturale nel ciclo vitale di un genere letterario: un genere sviluppa convenzioni che col tempo vengono universalmente accettate e creano aspettative nei lettori; a questo punto, subentrano autori che sovvertono le convenzioni in questione, provocando il divertimento dei lettori. Questa lettura fa della parodia quasi più un fenomeno trans-genere che un genere vero e proprio, ma non complichiamoci la vita.

Di sicuro si divertivano a sovvertire le convenzioni i Goliardi medievali che parodiavano testi sacri e procedure giuridiche, e la letteratura propriamente detta non andava certo indenne: che cos’è il Sir Thopas dei Canterbury Tales se non una parodia dei poemi cavallereschi? Nella stessa vena, qualche secoletto più tardi, ecco il Don Quixote, che pur finendo con il trascendere di gran lunga, parte come una parodia*, la più semplice Secchia Rapita del Tassoni, The Knight of the Burning Pestle degli inseparabili Fletcher&Beaumont.

Non è detto che la parodia sia sempre il centro dell’opera in cui si trova: in Shakespeare compaiono spesso parodie a fini comici (Piramo e Tisbe nel Sogno di Una Notte di Mezza Estate), satirici (il Matto del Re Lear) o di contrasto drammatico (l’incontro tra Amleto e gli attori – anche se non è del tutto improbabile che qui il buon Will si stesse togliendo qualche sassolino di tra i denti); Swift prende ferocemente in mezzo la scienza dell’epoca con l’Accademia Scientifica di Laputa, e Jane Austen scaglia più di un dardo in direzione del romanzo gotico (particolarmente Mrs. Radcliffe) ne L’Abbazia di Northanger. Il tutto all’interno di lavori che non sono parodie nel loro insieme.

Non è infrequente che la parodia venga usata a fini di satira sociale o politica, più o meno tagliente. Si parlava di Swift, prima, e si possono ricordare anche G.B. Shaw con la sua spietatissima Eneide balcanica di Le Armi e l’Uomo, e Oscar Wilde che, con i matrimoni contrastati e le agnizioni de L’Importanza di Chiamarsi Ernesto si fa beffe della buona società inglese e di un certo tipo di letteratura insieme.

Con il Novecento, poi, non è sorprendente che la parodia abbia toccato e incluso altri generi espressivi, primo tra tutti il cinema, che ha cominciato assai presto nella sua storia a parodiare tanto se stesso quanto la letteratura. Da Stanlio e Ollio a Mel Brooks a Shrek, intere carriere si sono costruite sullo sbeffeggiamento più o meno amabile di generi, stili e convenzioni. Se dovessi elencare qualche predilezione personale, credo che citerei Brancaleone, Frankenstein Jr. e SpaceBalls.

E, parlando di altri mezzi, non dimenticherei la televisione (Lopez, Solenghi e Marchesini, anyone? Oppure Galaxy Quest**?) la radio, con le ripetutamente citate parodie dumasiane di Nizza&Morbelli, e i fumetti, con le meravigliose, bonarie e spassosissime parodie Disney in testa. L’Oro del Reno con Paperone/Wotan provvisto di un assistente chiamato Sidol, Aquì, Acà e Donde Està, nipoti nella Papernovela, e Macchia Nera nei panni dell’Innominabile nei Promessi Topi sono indelebilmente scolpiti nella mia memoria e ogni volta scatenano in me crisi di cachinni.

Il che non significa necessariamente che abbia sempre apprezzato le parodie: ricordo ancora l’inorridito choc della prima lettura di Un Americano alla Corte di Re Artù, quando a) ero molto, molto giovane; b) ero nel pieno della mia fase medievale. Attribuirei la reazione a un sense of humour ancora in fieri, ma devo confessare l’occasionale scarso divertimento di fronte a certune parodie.

Che se ne deve dedurre? Stando a Bakhtin, si direbbe che io non abbia ancora finito di stabilizzare le mie aspettative su determinati argomenti (in pratica, non avrei ancora assorbito abbastanza trattamenti narrativi del Barone Rosso, ad esempio, per trovare divertenti le distorsioni parodistiche del personaggio). E tuttavia non so: il mio Mentore Operistico era un melomane accanito che aveva assorbito dosi industriali d’opera per più di cinquant’anni. Se questo non aveva stabilizzato le sue aspettative, I don’t know what would have, eppure il MO non si divertiva per nulla a sentir ridere (o sorridere) dell’opera e delle sue convenzioni***.

Probabilmente, da un lato si può essere – per natura, educazione letteraria e abitudine – più o meno inclini ad apprezzare la parodia in sé; dall’altro forse Bakthin ha ragione e ciascuno di noi sviluppa le sue aspettative in modo settoriale, raggiungendo lo stadio della parodia in tempi diversi per generi diversi; dall’altro ancora, è possibile che tutti noi conserviamo un certo numero di argomenti e personaggi su cui restiamo e resteremo sempre poco spiritosi. Come dire… su questo non si scherza, poffarbacco!

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* Con l’effetto collaterale di offuscare in gran parte l’originale da cui era partito: chi si ricorda più di Amadigi da Gaula se non come dell’ispirazione del Don Quixote?

** Sì, d’accordo: questo è cinema che parodizza la televisione, ma fa lo stesso.

*** Poche volte ho sentito attempts at humour cadere con rumore di semolino spiaccicato come quando lessi al MO la parodia operistica di Nizza e Morbelli…

 

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Mito e Psiche: Antigone

AntTutto sommato non ci stupiamo troppo di scoprire che anche nel mito e nella tragedia ci sono figlie e figlie, vero?

Dopo Elettra vendicatrice (sia pure per interposta persona), ecco Antigone, martire della famiglia… e di qualcos’altro.

Povera Antigone, figlia e sorella di Edipo, prediletta di sua madre, se diamo retta a Giocasta  nell’Edipo Re. Ecco, proprio lì, in quel monologo di Giocasta, Eschilo ci lascia intravvedere una stagione serena per i reali di Tebe – quando ancora ignoravano chi e cosa fossero…

Poi tutto crolla, e Antigone, la figlia maggiore, è quella che accompagna nell’esilio Edipo maledetto e cieco. Lo assiste, lo guida, mendica per lui e cerca invano di riconciliare padre e figlio, quando Polinice viene a chiedere appoggio e se ne parte con una maledizione. Solo quando Edipo muore perdonato dagli dei, Antigone ritorna a casa – quella Tebe che un fratello difende e l’altro assedia… E alla tragica fine che si sa – i due fratelli uccisi a vicenda, l’uno onorato in morte, l’altro gettato in pasto ai corvi – Antigone si rivela qualcosa di più e qualcosa d’altro che la fanciulla obbediente e il sostegno di suo padre.

Antigone non solo sfida il decreto di Creonte – tecnicamente legale ma offensivo della pietà umana e familiare – e seppellisce simbolicamente il fratello, ma difende la giustizia della sua disobbedienza fino alle conseguenze più nere.

antigone_hidalgo_lopez_museumE quindi alla fin fine l’irriducible Antigone è una sorellina ideale dell’implacabile Elettra – sacerdotesse entrambe di quelle leggi antichissime del sangue che trascendono tanto gli editti umani quanto i cicli di vendetta degli dei. Solo che, mentre il destino di Elettra si ricompone quando gli dei trovano un equilibrio tra le rispettive offese, Antigone arriva ad incarnare il dilemma umanissimo tra legge e giustizia. Ciò che le leggi consentono è sempre giusto? E a chi va il primo dovere del governante come del suddito? Non è un caso che, in questa storia, il deus ex machina arrivi quando le conseguenze umane sono già passate oltre.

La mia teoria personale è che la tragedia classica ci mostri tante volte un antropocentrismo che sgomita nei confini della teologia – ma venite questa sera alle 21, al Teatrino D’Arco, a vedere il taglio che Mario Zolin dà a questa storia, e a sentire che ne tira fuori il dottor Luciano Negrisoli, di Freudiana Libera Associazione.

La raccomandazione consueta: l’ingresso è gratuito e non si prenota ma, i posti essendo pochini, arrivate per tempo!

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Uno Strumento Potentissimo: C.W. Hodges e il Teatro

Il teatro come istituzione è il principale meccanismo tramite il quale gli esseri umani sviluppano i loro modelli di condotta, la loro moralità, le aspirazioni, l’idea del bene e del male e, in generale, quelle fantasie a proposito di se stessi e dei loro simili che, se praticate con persistenza, tendono a diventare fatti nella vita reale.

Trovo l’idea dell’umanità che prova e modella se stessa attraverso il teatro CWHodgesenormemente affascinante – ma immagino che da me non ci si possa aspettare altro, giusto?

Ad ogni modo, l’idea è dell’Inglese Cyril Walter Hodges, pluripremiato illustratore, scenografo, costumista, romanziere storico e studioso shakespeariano. Personaggio parecchio eclettico – ma con un metodo, considerando che la maggior parte del suo lavoro ruota attorno al teatro, alla storia e alla storia del teatro.

Personalmente adoro le sue illustrazioni: le linee veloci ed eleganti, l’equilibrio tra abbondanza di dettagli e stilizzazione, i colori trasparenti e luminosi… Di tutti i suoi lavori, i miei preferiti sono quelli dedicati al teatro, e a quello elisabettiano in particolare. L’intero corpus fu acquistato negli anni Ottanta dalla Folger Library, che adesso ha digitalizzato tutto quanto per renderlo disponibile nella Reticella – qui e qui. Raccomando cautela, perché è uno di quegli e-posti in cui si possono passare tante e tante ore felici – ovvero un Pozzo delle Ore Perdute… Non so quante volte mi ci sono e-recata in cerca di qualcosa di specifico per poi perdermi a girovagare felicemente.

Globe+Full+ColourEd è un po’ un’ironia che un uomo che ha incentrato la sua vita su una passione per il teatro elisabettiano dovesse avere pessimi ricordi del Dulwich College – fondato dal grande attore elisabettiano Edward Alleyn – tanto da ricordare i suoi anni scolastici come “un’infelicissima prigionia”… Ma per fortuna l’infelicità scolastica non spense l’interesse del giovane Hodges per il periodo, e non gli impedì di diventare l’uomo i cui disegni speculativi e la cui erudizione sono stati fondamentali nella ricostruzione moderna dei teatri elisabettiani.

Mi piace pensare che, se il teatro serve a modellare l’idea che l’umanità ha di se stessa, Cyril Walter Hodges ha senz’altro contribuito in modo essenziale a modellare l’idea che noi abbiamo del teatro elisabettiano.

teorie · Vitarelle e Rotelle

Ascoltando Senza Volere

street-cafeQualche giorno fa sono partita con l’intento di sperimentare una di quelle cose che si leggono nei libri – scrivere in un caffè – e ho finito per fare tutt’altro.

Io al caffè ci sono andata: un grazioso posto in città con i tavolini all’aperto, con vista su una bella viuzza pittoresca e su un giardino pieno di rose. Essendosi una bella giornata, mi sono impadronita di un tavolino sotto gli ombrelloni bianchi, ho ordinato un tè al latte e mi sono messa al lavoro. E tutto andava molto bene per – forse – un quarto d’ora. Poi, nel tavolino alle mie spalle, sono venute a sedersi in due, una delle quali era appena stata lasciata dal moroso e aveva bisogno di sfogarsi…

E vi giuro che non avevo la minima intenzione di ascoltare. Io ero lì per scrivere – o quanto meno per revisionare, e sarei stata ben felice di restarmene nel Sedicesimo Secolo per il resto della mattinata… Ma l’Abbandonata parlava a voce altissima, e le sue vicende hanno cominciato a sovrapporsi a quelle del mio protagonista e così, senza volere, mi sono ritrovata a fare un’altra cosa da libri. Da libri – o seminari – di scrittura. Nel capitolo sul dialogo capita sempre: presto o tardi l’istruttore suggerisce di ascoltare la gente che parla sull’autobus, per strada o al caffè – per le storie, sì, ma anche e soprattutto per la maniera, il ritmo, il colore, gli usi colloquiali, le omissioni e, insomma, tutto quello che fa di una voce una voce. Listening

E in effetti, poco a poco, la narrazione dell’Abbandonata mi ha catturata. Non la storia – perché ci sono giorni in cui dubito un pochino che ogni famiglia infelice sia infelice a modo suo – ma il modo in cui era raccontata. C’era qualcosa, nel frasario da rivista femminile – o forse da talk show – e nel tono leggermente declamatorio e appena un po’ troppo alto… qualcosa di costruito. Di provato, ecco. Come se la signora avesse già raccontato tutto quanto in precedenza, ad altri o a se stessa. Forse ad alta voce e forse no, magari durante una notte solitaria e insonne, magari in macchina mentre guidava. Col che non intendo dire che non fosse sincera – ma di sicuro l’Abbandonata aveva speso tempo e pensieri nell’organizzare la storia così come io l’ho sentita. Solo che è rimasto, per dir così, l’eco delle prove.

È stato affascinante, a suo modo. Non userò mai la storia che ho sentito – ma il modo, il tono, e forse anche il registro, e quel che potevano implicare, sono un’altra faccenda. Ad esempio è proprio il tipo di cosa che il mio protagonista, attore di teatro con un’ossessione per le voci, potrebbe notare. Così adesso sono a caccia di una situazione in cui infilare qualcuno che parla in questo modo… E magari è un po’ tardi, a due terzi della terza stesura – ma ho ancora qualche scena da scrivere. Chi potrebbe avere l’eco delle prove nella parlata – e perché? E che cosa succede quando Ned se ne accorge?

È promettente.

E tutto sommato, tutti quegli istruttori avevano ragione: vale decisamente la pena di ascoltare.

scrittura · teorie · Vitarelle e Rotelle

Circhi, Sipari e Strozzature

Parlavamo del sipario della conoscenza, ricordate?

Ebbene, per gentile concessione dello scrittore e insegnante di scrittura creativa Larry Brooks, il papà del favoloso sito Story Fix, ecco a voi la traduzione di un’interessante variazione sulla struttura narrativa aristotelica. Struttura in due Punti Trama, due Strozzature e uno Snodo Centrale.

A parte il fatto che è presentata a forma di tenda da circo (a tre piste), la struttura non è diversissima da Tre Atti & Tre Disastri, ma lo schema è pieno di acute osservazioni sulla progressione della storia. Personalmente sono affascinata in particolare dallo Snodo centrale – quel terremoto nella comprensione del protagonista di cui, per l’appunto, parlavamo lunedì – e dalle due Strozzature, aperture sul punto di vista dell’Antagonista.

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LEGENDA:

I Punto Trama: è il singolo evento più importante di tutta la storia, è ciò che guida o spinge il protagonista attraverso tutti gli alti e bassi a seguire. E’ dove la storia inizia, dove il conflitto principale fa la sua comparsa in scena. Dovrebbe arrivare circa a un quarto dall’inizio, alla fine della fase di preparazione.

I Strozzatura: qualcosa di semplice e rapido, mostrato al lettore dal punto di vista dell’antagonista, per ricordargli che l’antagonista è là fuori, con cattive intenzioni nei confronti del protagonista. Circa a 3/8 della storia.

Snodo Centrale: è dove il sipario della conoscenza si scosta per il protagonista e/o il lettore. A cambiare non è tanto la storia, quanto la comprensione di ciò che sta accadendo da parte del protagonista e/o del lettore. Se è messo a parte dell’epifania, il protagonista passa qui dall’atteggiamento di reazione a quello di attacco.

II Strozzatura: attorno ai 5/8 della storia, è il momento di dare un’altra occhiata al punto di vista dell’antagonista, per mostrare al lettore che ci sono buone o cattive sorprese in serbo per il protagonista.

II Punto Trama: è l’ultimo momento utile per aggiungere alla storia informazioni che consentiranno al protagonista di fungere da catalizzatore per la conclusione della storia. Dopo questo punto – attorno ai 3/4 della storia, non c’è più posto per ulteriore esposizione: si usano solo informazioni e personaggi già in campo.

È logico, non si tratta di prescrizioni tassative, ma dell’esposizione di una serie di principi che si sono solidificati in millenni di narrazione. Per di più, è un’esposizione originale, intelligente e più percettiva della media, piena di buone domande che, nel progettare la struttura di un romanzo, sarebbe salutare porsi prima o poi.

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Qui potete vedere – e scaricare – il PDF originale, opera della grafica Rachel Savage.