È il 1861 quando capita che il Teatro Imperiale di Sanpietroburgo (il futuro Marjinski) chieda a Verdi un’opera. L’incarico è prestigioso, e Verdi accetta di buon grado – ma quale opera? Il teatro propone il Ruy Blas di Hugo, subito scartato per ragioni di censura, e allora, Spagna per Spagna, Verdi propone Don Alvàro, o La Fuerza del Sino, drammone iperromantico e affollato dello spagnolo duca di Rivas. E i Russi accettano, così Verdi si rivolge al vecchio amico Piave (povero Piave!) per un adattamento.
Successone pietroburghese, entusiasmo di Zar e Zarina, ordine imperiale e reale di San Stanislao per Verdi… Vogliamo pensare che per una volta sia andata dritta al primo colpo? Niente problemi di censura, libretto visto e piaciuto?
Ma no, naturalmente: figuratevi che alla Scala, anni dopo, la Forza del Destino ci arrivò rimaneggiata da Ghislanzoni, accorciata, con un morto e mezzo in meno e un atto rifatto… Povero Piave, indeed.
Adesso la Forza, con una fama lievemente iettatoria a traino, si esegue sempre nella versione di Ghislanzoni, e dunque è questa che procedo a raccontarvi.
Atto Primo
Siamo a Siviglia alla metà del Settecento, nella stanza della bella Leonora di Vargas, marchesina di Calatrava, cui l’affettuoso babbo marchese è andato a dare la buonanotte. E i padri operistici non impareranno mai a levare il sopracciglio quando le loro sopranili figliole si torcono le mani senza causa apparente… il Marchese non fa in tempo a girare l’angolo che la servetta Curra riapre il balcone e comincia a preparare il genere di bagaglio sommario che una nobile fanciulla si porta dietro per andarsi a sposare di nascosto… Ed è così che scopriamo come il tenore Don Alvaro sia in arrivo per rapire la sua bella.
Leonora, a dire il vero, ha qualche remora, e quando arriva, l’impetuoso Alvaro ha il suo daffare a convincerla a calarsi dal verone. Perché, vedete, il guaio si è che Alvaro è, nelle parole di non so chi fra i due librettisti, un indo di regale stirpe, di anima ardentissima, indomita e sempre nobilmente generosa. Ops… non solo un coloniale, ma un indigeno delle colonie – di stirpe regale finché si vuole, ma socialmente inacettabile per i nobilissimi e spagnolissimi Vargas di Calatrava. E allora fuggir bisogna, ma Leonora è un soprano di varietà singolarmente irresoluta, ed esita, e periclita, e tentenna, e chiede di rimandare la fuga all’indomani…
E tu contento, gli è ver, ne sei?
Sì, perché m’ami, nè opporti dei;
E come no? Contento come una Pasqua, Alvaro propone di sciogliere il fidanzamento sur le camp, il che pare decidere la bella tentennatrice – ma è tardi. La porta si spalanca e il nobile babbo rientra brandendo la spada di famiglia e ordinando ai servi di incaprettare il vile seduttore. E allora Leonora supplica con scarso effetto, e Alvaro chiede di morire in duello, e il Marchese rifiuta, e Alvaro in vena di gesti drammatici estrae la sua pistola e la getta a terra, e parte un colpo – e indovinate chi becca?
A titolo di esempio del perché quest’opera sia considerata sfortunatella, il Marchese la prende nelle costole e muore – non prima di avere maledetto la figlia disonorata e disonoratrice della famiglia. Orrore e confusione, e Alvaro si trascina via Leonora per il balcone – e via verso l’ignoto, mentre si chiude il sipario.
Atto Secondo
È passato un anno e mezzo, e ci siamo spostati a Hornachuelos, in quel di Cordoba, in una pittoresca osteria, dove arriva, in vesti di studente, Don Carlo** di Vargas, fratello di Leonora a caccia di sorelle degeneri e incas seduttori. Ora, giusto perchè lo sappiate, Don Carlo è un baritono e a me è simpatico. Il librettista ce lo descrive come giovane ardente di 22 anni. Animato sempre dalla sete di vendicare l’offeso onore della sua casa; che risolutamente e tenacemente affronta ogni difficoltà, sprezza ogni pericolo pur di giungere al suo scopo. How very Spanish, isn’t it? E comunque, ammetetelo: ha le sue ragioni. Comunque, con tutta l’Andalusia a disposizione, proprio qui deve arrivare Leonora – sola e vestita da uomo – e scomparire rapidamente dopo avere riconosciuto il fratello? Ma quest’opera è così, e comunque siamo subito distratti dall’apparire della zingarella Preziosilla, che canta, danza, legge la mano e si direbbe che lavori in subappalto per i sergenti reclutatori, visto lo zelo con cui invita gli uomini ad arruolarsi e andarsene a caccia di gloria in Italia…
Preziosilla prende in subita antipatia Don Carlo, che non le sembra affatto uno studente… Di certo, quando tutti vanno a guardar passare il coro di pellegrini diretti al giubileo, e Leonora esce come il cucù di un orologio, per pregare in pubblico che il cielo la salvi dal fratello vendicatore, la nostra zingarella fa due più due – e tanto più quando poi il falso studente mostra un po’ troppo interesse per il misterioso ospite che cena in camera, e sul quale nessuno sembra disposto a dirgli nulla. Carlo ha i suoi sospetti, ma anche il coro comincia ad averne su di lui, così che il giovanotto deve cavarsi d’impaccio raccontando di come abbia abbandonato momentaneamente i suoi studi di legge per assistere il suo buon amico, il cavaliere di Vargas, nella caccia al delinquente che gli ha ucciso il padre e la sorella e che adesso pare stia fuggendo nel Nuovo Mondo… Non che Preziosilla gli creda, ma gli altri sono impressionati e convinti.
Cambio di scena.
Voi ci credete che Alvaro se ne stia fuggendo da solo nelle Americhe, lasciando indietro Leonora? Lei ci crede eccome, tanto che, al riaprirsi del sipario, la troviamo che bussa alla porta di un convento mentre fa l’inventario delle sue molte infelicità: il babbo morto, il fratello che vuole il suo sangue, il moroso che l’ha piantata in asso… dopo un breve intermezzo semicomico con il portinaio Fra Melitone, cui non par bello aprire a uno sconosciuto nel cuore della notte, arriva l’angelico Padre Guardiano, cui Leonora rivela i suoi guai e chiede rifugio. Il Padre Guardiano le propone la più sensata soluzione di un convento femminile – ma Leonora no, vuole restare dov’è, e minaccia, se verrà respinta, di andarsene per le balze, gridando aìta finché qualche animale selvatico non metterà fine alle sue sofferenze. Commosso dal suo dolore, e forse spiazzato dalla minaccia di ritrovarsi una squilibrata che balza per le balze ululando aìta, il Padre Guardiano le assegna un saio e uno speco*** in cui soggiornare romita, orante e semidigiona per purgarsi l’anima. Siccome è quasi l’alba e gli altri frati arrivano per cantare le lodi, Leonora fa in tempo a ricevere la comunione, e poi se ne va al suo speco con vista monti, mentre il coro invoca su di lei la celebre benedizione della Vergine degli Angeli – e sipario.
Atto Terzo
Seguendo a nostra volta l’invito di Preziosilla, andiamo in guerra. Siamo in quel di Velletri, ai margini del campo spagnolo, dove scopriamo che Don Alvaro non è affatto nelle Americhe – anzi. Lo ritroviamo prode capitano dell’esercito spagnolo, sotto falso nome, occupato a passeggiare nottetempo e a maledire la sua sorte. Sangue reale, orfano, infelice, Leonora, omicidio colposo – e tutta la faccenda che conosciamo già – a parte il fatto che il nostro tenore, per qualche motivo, crede che Leonora sia morta. Né è troppo occupato a maledire la sorte per salvare un giovane ufficiale inesperto che, appena arrivato al campo, è entrato nella bisca sbagliata e per poco non ci lascia le penne. E indovinate, in questa fiera della coincidenza, di chi si tratta? Ma di Don Carlo, naturalmente.
Però ricordate che i due non si sono mai visti in faccia, e sono entrambi arruolati sotto falso nome… E la beffa è che si piacciono subito a vicenda, e prima di subito si giurano eterna&fraterna amicizia.
Cosicché, quando nella battaglia successiva Alvaro/Federico resta ferito gravemente e crede di morire, è proprio all’afflitto e sollecito Carlo/Felice che chiede di distruggere le sue carte senza leggerle. Carlo/Felice giura, ma ha qualche dubbio. È capitato che, in un momento di trasporto malguidato, prometesse all’amico l’ordine di Calatrava, e la proposta fosse accolta con orrore… Sta a vedere, sta a vedere! A questo punto, mentre Alvaro/Federico è sotto i ferri del cerusico, i sospetti di Carlo/Felice lievitano. Però lui è un prode nobiluomo spagnolo, e non può infrangere la parola data, per quanto ne sia tentato… Peccato che, nell’affidargli le consegne, il nostro Indo si sia dimenticato di includere nel patto la miniatura che si tiene in valigia. Su questa Piccoli Casuisti Crescono non ha giurato nulla, e dunque la apre e ci trova… Leonora! Tombola. Trovato il vile seduttore – solo che non muoia sotto i ferri… ma no: il chirurgo arriva con buone notizie, e il cavaliere di Vargas si rallegra. Il seduttore è vivo, e può ucciderlo lui.
Fast forward del tempo che ci vuole a guarire da una ferita. È di nuovo notte, e Alvaro, di nuovo in piedi, ha ripreso l’abitudine di passeggiare attorno al campo maledicendo la sorte. Ma stanotte la sorte maledetta la incontra nella persona di quello che ancora crede il suo amico, e che invece si rivela per Don Carlo di Vargas, e se non è troppo disturbo lo ucciderebbe volentieri. Alvaro tergiversa, perchè gli par brutto infilzare il suo ex-amico, e anche l’uomo cui ha ucciso il padre… Nonché sedotto e abbandonato la sorella, gli ricorda Carlo. E Alvaro protesta di no, che Leonora lo ricambiava, ma è morta, miserella – dopo che lui, ferito gravemente la notte della fuga, l’ha persa per strada… Ma niente affatto, lo informa Carlo, e a questo punto Alvaro sarebbe pronto a dimenticare il passato, cercare Leonora e sposarla – perché lui, dopotutto, è di sangue reale…**** Al che Carlo fa notare che poco importa che sangue abbia, resta il piccolo dettaglio dell’assassinio del Marchese, per vendicare il quale ha ogni intenzione di uccidere lui e Leonora senza distinzione di trattamento. Ed è la minaccia a Leonora a decidere Alvaro: i due sguainano le spade e si battono per un po’, ma arriva la ronda e li separa e trascina fuori scena.
Segue un lungo quadro di colore locale, con Preziosilla, i camp-followers, le reclute, i soldati spagnoli, i soldati italiani, le vivandiere e persino Fra Melitone – perché in fatto di coincidenze, l’abbiamo detto, qui non ci facciamo mancare nulla. E poi sipario.
Atto Quarto
È passato oltre un lustro,***** e Fra Melitone è tornato in convento a Hornachuelos, dove distribuisce la minestra ai poveri, con tanta bruschezza e così scarsa carità, che i mendicanti rimpiangono quell’angelo e santo del Padre Raffaele che si occupava di loro prima.
Ma Raffaele, c’informa Melitone, è non poco squadrellato, e troppo preso da digiuni, cilici e penitenze per occuparsi di qualcosa di così prosaico come la minestra dei poveri. Vi viene il dubbio di chi possa essere? Alla fine, i mendicanti se ne vanno più o meno soddisfatti, e si bussa alla porta. È un misterioso e arrogante cavaliere, che viene a cercare proprio Padre Raffaele. E scommetto che nessuno si sorprende nello scoprire, quando i due s’incontrano, che il frate è Alvaro e il cavaliere Carlo. Ecco che ci siamo. Alvaro/Raffaele in un primo momento rifiuta di battersi – per l’abito che porta, per la pace che cerca, per l’umiltà che ha accettato… chiede perdono, e s’inginocchia, e supplica. Ma lo sapete come sono questi nobiluomini spagnoli una volta che si sono intestarditi in una vendetta: Carlo insulta, vilipende e schiaffeggia, finché Alvaro getta alle ortiche i suoi scrupoli, e i due corrono offstage a battersi.
E dove correranno mai? Nei pressi dello speco di Leonora, ovviamente, che prega e digiuna da una decina d’anni (dipende da quanto è più di un lustro), ma ancora non è riuscita a togliersi di testa Alvaro, e vorrebbe tanto morire… Appena lei è tornata a richiudersi nel suo speco, entra in scena Alvaro, che ha ferito a morte Carlo, e cerca disperatamente un confessore per il secondo Vargas che ha fatto fuori nel giro di dieci anni. E bussa allo speco dell’eremita, e l’eremita non ne vuole sapere, e quando apre la porta… oh numi! Leonora! Alvaro! Non dirmi che abbiamo vissuto dentro e fuori dallo stesso convento per cinque anni e non lo sapevamo! Sì! Giusto cielo, siamo riuniti! Er… non proprio: sai com’è, ho appena spacciato tuo fratello… 
Leonora, disperata, corre offstage per abbracciare un’ultima volta il fratello morente, e Alvaro si torce le mani. Magari un parente assassinato una ragazza può anche perdonarlo, ma due? E però il problema sta per farsi irrilevante. Odesi uno strillo, e Leonora rientra sorretta dal Padre Guardiano – e ferita a morte. Carlo, che non era nulla se non coerente, prima di morire ha accoltellato la sorella degenere.
Orrore, orror! Alvaro impreca, ma Leonora e il Padre Guardiano lo esortano all’umiltà e al pentimento. Lui non ne vorrebbe sapere, ma che può fare a questo punto? Dopo avere smaniato per quattro atti, Alvaro si pente e si umilia, così Leonora muore contenta promettendogli il perdono di Dio.
Morta!
costata Alvaro, al che il Padre Guardiano corregge: no,
Salita a Dio!
E sipario. Nella versione Piave, il finale era più truce: Carlo feriva la sorella e moriva in scena e Alvaro, persa del tutto la trebisonda, balzava per le balze imprecando e poi si buttava giù. I Russi non avevano mostrato compunzioni in proposito, ma parve che più a occidente il pubblico si sgomentasse, e così il finale fu sanitizzato. Che non lo fosse di più è merito di Verdi che si impuntò sulla morte di entrambi i fratelli Vargas.
Un’ultima nota di colore. Ricordate il Ruy Blas rifiutato dai censori russi? Qualche anno più tardi lo musicò Filippo Marchetti, che ebbe la sfortuna di debuttare alla Scala alla fine della stagione 1869, dopo il travolgente successo dell’approdo scaligero della Forza del Destino. Del Ruy Blas nessuno si accorse troppo, e l’opera rimase in scena per due serate soltanto per essere ripresa soltanto nel 1873. Allora ebbe un successone e ventuno repliche – più dell’Aida. Se lo chiedete a me, avevano avuto ragione nel Sessantanove, ma così vanno gli alti e bassi dell’opera.
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** E con questo facciamo due Don Carli verdiani. Presto saranno tre.
*** Eccola qui, la grotta in dotazione!
**** Casomai noi o qualcuno in scena si avesse la tentazione di dimenticarsene. Non vi ricorda Alan Breck Stewart, who bears a king’s name? A parte il fatto, si capisce, che Alan è incommensurabilmente più simpatico.
***** E che mai vorrà dire “oltre un lustro”? Cinque anni sono cinque anni, sei anni sono sei anni, sette anni sono sette anni… mah.
Tra il 1855 e il 1856 Verdi mette all’opera Piave (povero Piave!) su un altro dramma di Antonio Garcìa Gutierrez, lo stesso del Trovatore. 
Ma non ora. O quanto meno non in scena – perché noi ci trasferiamo a Palazzo degli Abati, nella Sala del Consiglio, dove** Simone si dichiara toccato dalla lettera con cui nessun altri che Petrarca lo supplica di non gettare Genova nell’ennesima guerra fratricida con Venezia. Sennonché non sono in molti a considerare che ci sia alcunché di fratricida nel suonarle ai Veneziani… 
Ed eccoci qua. Quando il guareschiano Don Camillo s’infiltra nella spedizione sovietica di Peppone, che opera rappresentano i Russi a beneficio degli ospiti italiani? E quando Richard Gere introduce all’opera la Pretty Woman, che cosa la porta a vedere? E a dire il vero ho sempre pensato che questa seconda fosse una scelta un po’, you know… Non dico che il paralellismo narrativo non abbia il suo perché – ma forse, se fossi un uomo e volessi portare all’opera una graziosa prostituta in via di redenzione, non sceglierei proprio la storia di una graziosa prostituta che cerca di redimersi e ci lascia le penne…

Ma mentre lui non c’è, arriva suo padre a far visita alla maliarda che gli ha corrotto il figlio – o almeno così pensa, perché i modi di Violetta non sembrano proprio quelli di una donna perduta… Né è da donna perduta il modo in cui lei sostiene di non voler accettare un franco delle ricchezze di Alfredo, e di essersi lasciata alle spalle il suo peccaminoso passato.
Alfredo convoca il coro tutto, racconta di essere stato mantenuto da Violetta perché era cieco, vile, misero – ma adesso la ripaga, perbacco! E getta addosso alla poveretta “una borsa” – che nella maggior parte delle produzioni diventa una mazzetta di banconote.
Ed è proprio a questo punto che, mentre fuori impazza il carnevale, arriva Alfredo – contrito, commosso e più innamorato che mai. E fanno piani per lasciare Parigi o cara, e Violetta vuol vestirsi, vuol andare al tempio (matrimonio lampo?) – solo che non può e, a dire il vero, a differenza della maggior parte delle eroine d’opera non è per niente contenta di morir sì giovane, e proprio adesso che ha recuperato Alfredo…
Era il terzo campanello, questo? Sarà meglio che ci affrettiamo a tornare alle nostre poltroncine di velluto rosso. Scusi, signora, dovrei… Grazie. No, scusi lei. È suo questo programma? Prego…
E di difenderla forse non c’è poi tutto questo bisogno, perché a entrare è Stankar, che una volta di più frustra le intenzioni di confessione della figlia, e poi la caccia via. Ha due spade, Stankar, e l’intenzione di sfidare a duello il ben più giovane Raffaele – il quale è preso da scrupoli di coscienza* e non ha poi tutta questa voglia di battersi con un anziano signore pieno di gotta e di artrite che, per di più, non ha tutti i torti.
Siamo tornati al castello, dove Stankar contempla disonore, rovina, delusione e suicidio***. Ha già la pistola puntata alla tempia quando arriva Jorg ad annunciare l’imminente arrivo di Raffaele – e la sete di vendetta oblitera l’impulso autodistruttivo. 
Credo che Stiffelio sia l’unica opera di Verdi di cui non ho mai sentito nemmeno una nota.
Ed ecco che, a Masnadieri archiviati (e non strabene), Lucca si rifà vivo. E Verdi gli propone con entusiasmo il byroniano The Corsair. Sia chiaro che l’entusiasmo era tutto per il drammone – storia iperromantica di vendetta, amore & morte, popolata di pirati tragici, emiri malvagi, fanciulle greche e almee pugnaci – e niente affatto per l’editore, l’esosissimo e indelicatissimo sig. Lucca. Avendo avuto tempo di pensarci su, non è improbabile che Verdi si fosse pentito di essersi legato a un soggetto del genere per far dispetto a Ricordi, ma tant’è. 
Ma precediamoli all’isola sull’Egeo, dove Medora se ne sta a piagnucolare sul molo, dicendo al coro che sa che Corrado è morto, e che è contentissima di seguirlo nella tomba… Ma che appare là lontan sul mare? Una nave! E che nave sarà? È una nave amica! E chi mai ci sarà a bordo? È Corrado! 
Verdi era uno shakespeariano furibondo, conosceva la tragedia scozzese a menadito e aveva idee molto precise e dettagliate su come dovesse essere tradotta in libretto. Prima di tutto, voleva brevità e sublimità… e fosse stato tutto qui!
Ma allora, se uno dei vaticini rispondeva a verità… Macbeth impiega meno di una sestina a fare due più due e a decidere che non, non, non è il tipo del golpista. E intanto Banco è meno compiaciuto di quanto dovrebbe o potrebbe essere un buon amico… 
Pittoresco, nevvero? Arriva Macbeth a chiedere lumi, e gli si propone una consultazione con gli spiriti – i quali gli dicono: a) di guardarsi da Macduff – e a questo ci aveva già pensato da solo; b) di star sicuro che nessun nato da donna può nuocergli; c) che il suo trono sarà saldo finché non si muoverà il bosco di Birna(m). Data la non elevatissima densità di gente non nata da donna e boschi semoventi nella Scozia dell’epoca, Macbeth potrebbe fermarsi qui e andarsene a dormire contento…
Ma Verdi aveva ragione: nel marzo del 1847 il Macbeth debuttò alla Pergola di Firenze, e fu un successo maiuscolo – con la possibile eccezione del libretto.
“Perché non Attila?” disse Maffei – e Verdi, se avesse avuto delle antenne, le avrebbe rizzate. 
Ed eccolo qui, Attila su un carro trainato dagli schiavi, duci, re, ecc…* E prima che noi possiamo farci domande su quell’affascinante ecc…, il coro barbarico accoglie il suo condottiero così:
E mi sembra degno di nota che Odabella dica di non poter consumare il matrimonio con Attila perché lui le ha ucciso il padre. Non per altri motivi come, ad esempio, Foresto.
Era un po’ di tempo che Verdi aveva in mente di tentare Byron, e in particolare The Two Foscari, una di quelle cupe storiellone veneziane, ispirata alle vicende del doge Francesco Foscari e del suo sfortunato figlio. 
Persino il Doge, nelle sue stanze private, ammette a se stesso di non poterci fare nulla: tutto sembra condannare Jacopo, e il tribunale ha deciso. Come padre lamenta il tutto, ma come Doge deve sostenere con imparzialità la giustizia. 
A interrompere la tempesta di ottonari arriva Lucrezia – irrompitrice di professione – con i due pargoletti al seguito. Suppliche, lacrime, abbracci e, a dirla tutta, persino qualche senatore della Giunta si commuove. Ma non i Dieci e di certo non Loredano. Jacopo viene trascinato via mentre ancora supplica il padre di badare ai figli* – orfanelli a tutti gli effetti pratici – ed è il turno di Lucrezia per svenire.
E l’Atto Terzo si apre nell’antica piazzetta di San Marco, in vista di un subisso di gondole che vanno e vengono per il canale, mentre il sole volge all’occaso. Per la cronaca, il sole che volge all’occaso era uno dei tanti e tanti cambiamenti che Verdi aveva chiesto al povero Piave, perché il tramonto del sole è così bello…
Verdi non disse di no e, con un librettista nuovo, si mise alla ricerca di un soggetto che gli piacesse. Il librettista nuovo era Francesco Maria Piave – del quale avremo modo di riparlare – e la scelta dei due cadde su un dramma storico di Victor Hugo, una vicendona spagnuol-cinquecentesca chiamata Hernani, celebre per avere scatenato a Parigi una furibonda querelle tra classicisti e romantici…
Ne uscirono quattro atti truci e un nonnulla gonfi – persino per gli standard operistici… Lasciate che vi racconti.
Atto II – L’Ospite
Atto III – La Clemenza
