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Piccola Fenomenologia Del Segugio Tonacato

SegugiBrownPost lunghetto anzichenò, oggi, ma il fatto è questo: avete mai badato a quanti investigatori religiosi ci siano nei gialli – particolarmente nei gialli storici?

Il primo che mi viene in mente, in realtà, non è un caso di giallo storico affatto: il Padre Brown di Chesterton era contemporaneo – un pretino cattolico trasandato e acutissimo, che al suo amico e sidekick Flambeau (criminale riformato), perplesso sulla sua competenza in fatto di umana malvagità, dice: “Vi è mai venuto in mente quanto sarebbe improbabile che un uomo la cui occupazione consiste per lo più nell’ascoltare i peccati altrui fosse del tutto digiuno di umana malvagità?” O qualcosa del genere – cito a memoria e traduco a braccio, per cui… ma il sugo è quello, e forse è uno dei motivi della popolarità del sacerdote-detective: una combinazione di dimestichezza con gli aspetti meno edificanti dell’umana natura e di distacco dall’umana natura stessa…

Poi in realtà non tutti sono sacerdoti, non tutti sono confessori (anche se c’è una netta prevalenza di religiosi cattolici*) – ma tutti hanno qualche genere di passato.

segugiwilliam_de_baskerville_04Guglielmo da Baskerville è un ex inquisitore francescano. Apparentemente, una carriera nell’Inquisizione aguzza le meningi… oppure delle meningi aguzze favoriscono una carriera nell’Inquisizione. All’aprirsi del sipario de Il Nome Della Rosa, Guglielmo inquisitore non è più (disapprovava la quantità di innocenti arrostiti), ma è un ur-Holmes in saio con tanto di Watson – il giovane e candido novizio Adso da Melk, narratore e sidekick al prezzo di uno. Ma Eco va holmeseggiando in maniera spudoratamente metaletteraria – qualcosa che non tutti gli autori di historical whodunnit fanno.

Un altro con un passato è Fratello Cadfael, per esempio: monaco benedettino ed erborista nella turbolenta Inghilterra del XII Secolo, ma prima contadino gallese, servitore di un mercante di lana, crociato, armigero… tutte esperienze che gli vengono comode per la carriera di detective, al fianco dello Sceriffo di Shrewsbury, Hugh Beringar – di cui sarebbe il sidekick ufficioso, se le cose non stessero the other way ‘round. Naturalmente tutto questo passato (Cadfael ha persino un figlio saraceno convertito al Cristianesimo) e le idee non convenzionali che gliene vengono servono a molteplici scopi: conoscenze specifiche e non comuni, ma anche quel tanto di conflitto con i suoi superiori che non guasta mai e una giustificazione per quel genere di mentalità non proprio dugentesca che gli consente anche di fare da ponte tra l’epoca e il lettore.segugiDuLuc

Qualcosa del genere vale anche per Charles Du Luc, il giovane Gesuita di Judith Cook. Anche Charles ha un passato: squattrinato rampollo della piccola nobiltà provenzale, ex soldato, pieno di dubbi sulla revoca dell’Editto di Nantes per motivi famigliari, essendo parte dei suoi congiunti di fede ugonotta. Tutto ciò offre un’ombra di plausibilità storica alle idee non ortodosse di Charles, lo rende alquanto tollerante nei confronti dei peccati altrui e lo provvede di amatissima cugina ugonotta – lontana ma mai dimenticata – periodico attrito con i superiori (come sopra) e dosi ricorrenti di dubbio vocazionale.

Per ragioni di voti e/o di regole monastiche, ogni mossa dei detective in tonaca va giustificata con la segreta connivenza di un superiore o con un atto di disobbedienza – e in genere in ogni giallo il protagonista mette insieme una buona collezione di entrambi. La cosa si complica quando il detective diventa una suora, che si suppone goda di minor libertà d’azione – e sarà forse per questo che ci sono meno esemplari femminili della specie. Al momento me ne vengono in mente due.

segugioFidelma-closeupSuor Fidelma è una religiosa irlandese del VII Secolo, ma è anche una principessa reale e un avvocato – il tutto compatibile con le peculiarità della chiesa celtica dell’epoca. E quindi anche Fidelma ha un passato, dei dubbi sui suoi voti, delle competenze e tutto l’armamentario del caso, compreso un marito, religioso a sua volta, erborista, sidekick e attratto dall’ortodossia romana. Conflitto, conflitto, conflitto… Abbastanza perché i casi di Suor Fidelma siano sempre diabolicamente complicati, pieni di sottotrame politiche, giudiziarie e sentimentali.

Le cose sono un po’ meno intricate con il Canonico Sidney Chambers, giovane ecclesiastico protestante che James Runcie piazza a Grantchester, nel Cambridgshire, nei primi anni Cinquanta. Irrepressibilmente curioso, Sidney indaga accanto all’amichevole ma impaziente Ispettore Keating – e si gioca molto sul contrasto tra l’idillio apparente della campagna inglese e le ombre gettate dalla guerra recente e dalla malvagità umana in generale. Una specie di Padre Brown protestante, sotto certi aspetti – se non fosse per l’età e perché Sidney ha guai personali di un genere più moderno, visto che i traumi del suo passato militare sono tanto un tormento quanto un aiuto nel comprendere i tormenti altrui. segugiPelagia

Non so granché invece di Suor Pelagia, protagonista di tre o quattro gialli di Boris Akunin. So che è una suora ortodossa, insegnante in una scuola per fanciulle nella Russia a cavallo tra Otto e Novecento, e so che agisce per conto del suo vescovo, ma ho letto solo qualche recensione – non abbastanza per avere le idee chiare. Sospetto, tuttavia, che come tutti i suoi colleghi, Suor Pelagia possieda qualche genere di passato e di competenze e di dubbi – sennò come potrebbe andarsene attorno a risolvere omicidi?

Perché sono certa che sto tralasciando parecchi nomi**, ma mi azzardo a dire che la scelta di un detective religioso in altri secoli sembra rispondere ragionevolmente a una serie di criteri: la summentovata combinazione di conoscenza e distacco; la plausibilità di una buona istruzione; la possibilità di accedere a vittime e sospetti della più varia estrazione senza violare (troppo) le convenzioni sociali del tempo; l’autorevolezza dell’abito; un’ambientazione con qualche grado di singolarità. E poi a tutto ciò si aggiungono i parimenti summentovati dubbi e passato – giusto per tendere un ponticello al lettore, e per giustificare una certa proclività alla disobbedienza senza la quale, sembrano implicare generazioni di giallisti, la verità non si trova mai.

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* e probabilmente legioni di sacerdoti e sacerdotesse antichi, druidi e druidesse, e vestali – d’accordo, forse quelle no)

** Naturalmente, per una certa quantità di secoli non è che l’Occidente offrisse una gran varietà di alternative – ma inclino a credere che per una fetta del pubblico anglosassone gli ordini monastici cattolici abbiano un certo genere di… esotismo? Mistero? Singolarità?

Shakeloviana

Shakeloviana: A Plague Of Angels

PLagueChe i Carey Mysteries di P.F. Chisholm mi piacciano tanto non è una novità. Ben costruiti, ben ambientati, ben scritti, provvisti di dialoghi scintillanti e un’irresistibile popolazione di personaggi storici e fittizi, sono una gioia da leggere, e probabilmente la migliore serie di gialli storici in cui mi sia imbattuta da quando ho cominciato a interessarmi al genere.

Dubito che vi stupirete granché se vi dico che, invece di cominciare dal primo volume come fa la maggior parte della gente sensata, sono entrata di lato – dal quarto volume, per l’ottimo motivo che in A Plague of Angels compaiono Marlowe&Shakespeare. Soprattutto Marlowe.

Perché dopo avere investigato omicidi sul Border anglo-scozzese per tre volumi, Sir Robert Carey viene imperiosamente richiamato a Londra da suo padre, il formidabile Lord Hunsdon – Lord Ciambellano e primo cugino (e forse anche fratellastro sub rosa) della Regina Bess. Non è il tipo di convocazione cui si dice di no, soprattutto quando si è ultimogeniti squattrinati in perenne dipendenza dalla borsa paterna…

E così Carey si avvia a sud, e si trascina dietro il suo recalcitrante secondo, il Sergente Henry Dodd – attraverso i cui occhi semi-scozzesi (ma guai a dirglielo!) vediamo la grande, affollata, malsana, malsicura, sconcertante Londra Elisabettiana. I nostri due, che a questo punto sono bene avviati verso tanta spigolosa amicizia quanta ne consente la differenza sociale, si ritrovano a indagare su una faccenda di monete false, alchimia, fratelli scomparsi e giochi di potere – ma a mio timido avviso, per quanto la trama gialla sia davvero molto buona, tre quarti della gioia stanno nella gente storica che attraversa il libro. Carey, il suo irascibile padre, il gobbo e sottile Sir Robert Cecil, Emilia Lanier, l’orribile torturatore Richard Topcliffe, la Regina in persona, l’impossibile Robert Greene e, l’ho già detto, Shakespeare e Marlowe.

A parte Greene – sempre troppo ubriaco per far altro che danno casuale – tutti hanno secondi e terzi fini, tutti sono agenti di qualcun altro, tutti hanno segreti da nascondere. Persino il prudente Shakespeare, che tra un dramma e una tragedia, cerca di inserirsi nel servizio di spionaggio dei Cecil – e forse troppo prudente non è, considerando lo spudorato interesse che mostra per la bella amante di Lord Hunsdon. E Marlowe… be’, siamo a metà 1592, quando le cose per Kit cominciano a prendere l’inconfondibile forma di una pera: Chisholm lo dipinge sul punto di perdere il controllo, talmente preso dai suoi intrighi, talmente doppiogiochista, talmente imprevedibile che nessuno si azzarda a fidarsi di lui. Decisamente il tipo d’uomo destinato a non morire nel suo letto.

L’idea di fondo delle due caratterizzazioni non è originalissima: uno Shakespeare un po’ grigio, ma sempre occupato ad annotare tutto quel che sente per tradurlo in poesia, e un Marlowe fascinoso, fiammeggiante e del tutto inaffidabile, pericoloso per se stesso e per gli altri. Epperò, il modo in cui Chisholm svolge il tema è favoloso e originalissimo – non ultimo per lo stratagemma di mostrarci i due mostri sacri del teatro elisabettiano attraverso gli occhi spassionati e per nulla impressionati del granitico Dodd.

Alas, niente traduzioni – ma se siete in grado di affrontare un Inglese appena un po’ complesso, la lettura è consigliatissima.

grilloleggente

Il Teorema Di Sheherazade

Va bene, parliamo di serie.

L’atteggiamento logico sarebbe quello di cominciare con il primo libro della serie e poi continuare nel giusto ordine. Talmente logico che per molto tempo non mi sono nemmeno posta il problema.

Né, d’altra parte, posso dire di avere letto moltissime serie.  Sì, c’è la soddisfazione di ritrovare personaggi, ambientazione e vicende che si sono apprezzati. E on the other hand c’è sempre il pericolo d’indigestione. Ho ricordi men che piacevoli del ciclo di Shannara – che a un certo punto ho abbandonato per un motivo che ancora oggi trovo ragionevolissimo: non ne potevo più.

In compenso ci sono stati O’Brien, Forester e Cornwell, che ho letto con molto piacere dal principio alla fine – ed è possibile che sia anche una questione di genere. A mio timido avviso, sia O’Brien che Forester scrivono meglio della Rowlings, però ammetto che il diluvio di gergo navale o militare possa irritare quanto la sovrabbondanza di Quidditch – uno dei motivi per cui, pur avendo letto tutto Harry Potter, l’ho fatto con crescente impazienza e, se devo dire la verità, di sette tomi viepiù spessi, me ne sono piaciuti solo due.

Naturalmente non era solo questione di sport: il mio problema era la ripetitività dello schema, anno scolastico dopo anno scolastico… E perché, nonostante questo, li ho letti tutti e sette? Per la natura delle serie, concepite per trascinare il lettore di volume in volume, coniugando la rassicurante riconoscibilità dello schema con la curiosità solleticata. Ma guarda, il nostro eroe si è cacciato nei guai un’altra volta: riuscirà a uscirne? E in quali altri guai lo precipiterà la soluzione di questi? Il principio è sempre lo stesso (problema – soluzione – problema più grosso…), solo che è spalmato su un numero variabile di volumi. Ed è pur vero che una ciliegia tira l’altra proprio per la ragionevole certezza che anche la prossima sarà una ciliegia. Poi a volte la successione di ciliegie diventa un po’ troppo rassicurante – ma è una percezione soggettiva e comunque non è detto che ci si riesca a staccare pur avendo l’impressione di cominciare ad annoiarsi.

Che dire? La narrazione seriale è concepita per generare dipendenza. Sheherazade, anyone? La mia teoria è che dopo un volume è perfettamente possibile piantare tutto, dopo due diventa difficile, e dopo tre ci si può considerare perduti.

E badate, parlo di un volume, due volumi e tre volumi – non del primo, secondo e terzo…

Perché credevo che fosse il caso di leggere le serie in ordine cronologico – con la possibile eccezione dei gialli d’ambientazione contemporanea – ma comincio a ricredermi.

Dacché scrivo per HNR, però, mi capita di entrare in una serie da… well, da dove capita che serva una recensione. E talvolta mi irrito fin dapprincipio, come nel caso di Edward Marston, che scrive gialli storici in quantità industriale e in una collezione di periodi, l’uno più interessante dell’altro, ma poi li scrive tutti uguali, vaghi nell’ambientazione, piatti nei personaggi*, legnosi nei dialoghi e tutt’altro che al di sopra di errori ed anacronismi. E allora poco importa da quale volume abbia iniziato: mi sono ritrovata a leggere un singolo volume a caso di non una, non due e nemmeno tre, ma quattro serie di Marston, e non ho il minimo desiderio di vederne altri.

Ma quando invece mi capita di essere catturata, poco importa da dove ho iniziato: torno al principio e proseguo. Con risultati di varia natura, perché vado constatando che la redazione di una serie attraversa varie fasi, man mano che l’autore trova la sua voce, fa esperienza e poi comincia a stancarsi.

Così per esempio ho scoperto gli elisabettiani Carey Mysteries di P.F. Chisholm a partire dal quarto volume, sono tornata indietro, li ho adorati tutti e adesso, dopo avere finito il quinto, continuo a sperare che l’autrice ne scriva ancora un po’. E lo stesso è stato per i bellissimi gialli ottoman-ottocenteschi di Jason Goodwin.

Con le indagini di Abigail Adams di Barbara Hamilton, invece, ho cominciato dal secondo volume che ho trovato un po’ lento, ma ho apprezzato l’ambientazione nella Boston prerivoluzionaria abbastanza da fare un altro tentativo. E il primo volume si è rivelato molto più fresco ed efficace. Non sembra un gran buon segno, vero? Esiste un terzo volume, ma esito perché non so se credere a un lapse momentaneo o a una rapida disillusione. E per di più, mi par di capire che nel terzo giallo sia assente il mio personaggio prediletto, il Tenente Coldstone**.

E sì, considero la sparizione o mancanza di un personaggio particolare una questione di una certa rilevanza all’interno di una serie. Per dire, Fratello Cadfael (scoperto al terzo volume) mi piace molto, ma non riesco a trovarci troppo gusto quando manca Hugh Beringar, e lo stesso vale per Martin Wirthir nelle avventure di Owen Archer (iniziate dal secondo volume). Tornare indietro, in entrambi i casi, è stato di relativa soddisfazione: ho scoperto che non ero poi troppo interessata ai primordi in cui l’autrice non aveva ancora creato il sidekick adatto***.

Per Tancred a Dinant, il cavaliere normanno di James Aitcheson, è stata uan faccenda diversa. Il secondo volume mi è piaciuto tanto da indurmi a procurare il primo, salvo scoprire che trama, caratterizzazione e voce cigolavano sotto il peso dell’inesperienza del giovane autore. Inutile dire che, dato il miglioramento drastico, in questo caso sarò ben felice di veder comparire il terzo volume.

Sulle avventure navali di John Pearce, di David Donachie****, lettura recentissima, I’m of two minds. Premetto che avere cominciato dal nono volume non è stata la migliore delle idee, e forse non l’avrei fatto se non fosse stato per esigenze di redazione. Sia chiaro: la storia pregressa è gestita piuttosto bene, e il lettore non viene lasciato in dubbio su chi sia chi, chi voglia cosa e perché. Il problema è che questo nono episodio è più che altro una transizione, con il protagonista che chiude la missione precedente e si prepara per la successiva – e non è che succeda granché. E quel poco che succede ha l’aria di essere un po’ grautito… Dopodiché i personaggi sono davvero buoni, l’ambientazione accurata e vivida, i dialoghi efficaci, e i precedenti stuzzicano la mia curiosità. Sono alquanto tentata. Staremo a vedere, ma può darsi che ricominci.

E con questo non voglio dire che vada sempre così, perché ci sono serie come i gialli seicenteschi di Judith Rock e quelli di Nicola Upson con Josephine Tey per detective, o Sorcery&Cecelia, i fantasy Reggenza di Wrede e Stevermere – tutte serie che ho cominciato dal principio, dal volume 1, come la maggior parte della gente sensata… Upson probabilmente la abbandonerò, ma con le altre intendo continuare: buone fin dall’inizio e ancora niente delusioni.

La morale di tutto ciò? In primo luogo, si direbbe che quando sostengo di non leggere serie io menta. In secondo luogo, scrivere serie richiede una serie di competenze e astuzie distinte da quelle necessarie a scrivere un romanzo singolo, o anche una trilogia che racconta una storia compiuta.

Bisogna saper dosare i propri effetti e le proprie vicende su un numero non necessariamente prevedibile di volumi. Bisogna incuriosire il lettore senza spiazzarlo troppo. Bisogna dargli l’impressione di sapere dov’è (o non si fiderà abbastanza per comprare il prossimo volume) pur elargendogli il giusto tipo di sorprese al momento giusto (o si annoierà e non comprerà il prossimo volume). Bisogna architettare ogni volta un finale che sia soddisfacente e al tempo stesso tale da catapultare il lettore verso il volume successivo. Bisogna amministrare i loose threads, lasciarsi aperte abbastanza strade per il futuro e al tempo stesso non disperdersi e mantenere la storia generale sensata e coerente. Bisogna scegliere bene i propri personaggi – e badare a quando li si toglie di scena*****. Bisogna calibrare bene il passo. E bisogna essere certi di aver voglia di scrivere più o meno indefinitamente su un certo personaggio, mantenendolo attraente quanto basta. Può durare a lungo  – e allora si corre il rischio di annoiarcisi – o può durare poco, e allora immagino che sia dura abbandonare personaggio e ambientazione…

E bisognerebbe consentire al lettore di cominciare da qualsiasi parte, avendo l’impressione di leggere un libro che sta in piedi da solo e, al tempo stesso, di volerne sapere di più, molto di più…

Una volta a un seminario ho sentito un agente americano dire che in una serie, con ogni volume vendi il volume successivo. La mia impressione è che un buon singolo volume possa vendermi tutta la serie – ma il mio criterio fondamentale è questo: mi aspetto di leggere un romanzo, non una fetta di qualcosa di più grosso, senza inizio né fine, thank you very much.

E voi? Leggete serie? Vi lasciate catturare? E cominciate dal principio o fa lo stesso? Vi capita di entrare da una porta laterale – e poi restare? Che cosa vi fa adottare una serie? Che cosa ve la fa abbandonare?

 

 

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* Quanto detesto i suoi protagonisti bidimensionalmente ipercompetenti…

** Sì, un inglese. Un magistrato militare inglese. A me nelle storie coloniali tendono a piacere gli Inglesi. Fatemi causa.

*** Anche se in realtà, nel caso di Martin Wirthir forse la definizione di sidekick non è del tutto adatta. Nel secondo volume è più probabilmente un foil.

**** Che è poi Jack Ludlow, e anche Tom Connery.

***** Acida per via di Coldstone? Io? Non capisco come vi sia potuto venire in mente…

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Va’ A Capire Il Bestseller

Rant ahead, vi avverto.

5165TA4QLKL__SL500_AA300_.jpgEdward Marston è un autore pluriseriale di gialli storici. Al presente ha in corso tre serie: le avventure di un architetto-detective nella Restoration London, le vicende di una spia al servizio del Duca di Marlborough ai primi del Settecento e i casi di un ispettore di Scotland Yard specializzato in crimini legati alle ferrovie. E almeno un paio di volumi di delitti ferroviari sono assurti al rango di bestsellers di categoria.

Francamente fatico a capire perché.

Di Marston ho letto più di quanto potessi desiderare: considero quattro corposi volumi, letti per intero, letti con cura e recensiti per la HNR una solida base per lamentarmi.

C’è per esempio il fatto che le tre serie, ambientazione storica a parte, sono singolarmente simili tra di loro. C’è sempre un protagonista brillante, retto e pieno di risorse, supremamente abile nella sua professione, ammirato da tutti e del tutto privo di difetti, dubbi o ombre di alcun tipo. Poi c’è la fanciulla, una creatura dolce, coraggiosa e a sua volta priva di difetti, che l’eroe salva rocambolescamente nel secondo o terzo volume, in circostanze che danno luogo a una mutua devozione. Dopo di questo, nessuno dei due avrà altri pensieri al di fuori dell’amato bene (e della carriere, nel caso di lui). Poi c’è il padre di lei, burbero ma onorevole e intelligente. Essendo stato salvato insieme alla figlia, ha avuto modo di concepire un’illimitata stima nei confronti del futuro genero. Poi ci sono servitori, subalterni e aiutanti, gente che svolge i compiti meniali, offre comic relief, fa le domande ovvie, canta senza posa le lodi dell’eroe e/o dell’eroina, e occasionalmente si lascia sfuggire l’informazione sbagliata in presenza della persona sbagliata. E infine ci sono i superiori dell’eroe, costantemente impegnati a ringraziare il cielo di avere messo una simile perla d’uomo sotto il loro comando, e i malvagi/assassini/nemici, gente pessimissimissima dalle motivazioni di cartapesta, che sogghigna e digrigna i denti, e non ha altra aspirazione se non liberarsi una volta per tutte dell’eroe. 51r9vnR0AFL__SL500_AA300_.jpg

E ci sono i dialoghi. Pagine su pagine di terrificanti dialoghi in cui ci si chiama continuamente per nome come nelle soap opera e si discute di a) particolari che tutti i partecipanti alla conversazione dovrebbero già conoscere; b) le gioie del santo matrimonio; c) il prezzo del tè, la misantropia del sergente, aneddoti sulle ferrovie, le molteplici perfezioni dell’eroe… Perché diavolo, nel bel mezzo di una campagna, il segretario del Duca di Marlborough dovrebbe spiegare al Duca di Marlborough la strategia del Duca di Marlborough? “Come Vostra Signoria sa bene…” Quando un dialogo inizia così, a me viene l’emicrania. Ma, a dire il vero, mi viene anche quando per ben quattro pagine l’eroina ricatta moralmente la sua fida cameriera che non vuole partire per l’Inghilterra – quattro pagine quattro di mutue dichiarazioni d’affetto, reticenti ammissioni di sogni premonitori, accenni alle innumeri doti dell’eroe assente, tentativi di sensata persuasione e “oh, non potrei mai andare senza di te, Beatrix, vuol dire che resterò a casa”. Sembra quasi di sentire la voce del responsabile editoriale: E’ fantastico, Ed, ma ci mancano almeno 10000 parole per raggiungere la lunghezza commerciale. Aggiungi qualche scena, vuoi?

E c’è il gioioso e sovrano disprezzo per qualsiasi genere di plausibilità. A parte la vaghezza dell’ambientazione storica, a parte l’occasionale errore, a parte l’improbabilità di fanciulle per bene che vanno e vengono da sole per la casa di giovanotti scapoli, è proprio la meccanica delle storie che mi lascia senza parole. Gente che passa da un esercito all’altro come se nulla fosse, gradi da ufficiale che piovono dal cielo, guardie che cercano dappertutto tranne nella stanza dove si trova nascosto l’eroe, gente che in conversazione con uno sconosciuto sospetto, rivela informazioni rilevanti, altra gente che passa dal campanile di una chiesa all’abbaino del palazzo di fronte senz’altro aiuto che una fune – salvo poi, appena dentro, sfondare una porta a spallate allertando così le guardie… Tanto gli Audaci Buoni quanto gli Spregevoli Malvagi mostrano una combinazione di improbabilità e idiozia che sconsola.

51tPT6PKwoL__SL500_AA300_.jpgSono ben lungi dall’avere finito con le mie doléances, ma vi siete fatti un’idea. Peggio di tutto, Marston non è un novellino. Marston dovrebbe essere uno scrittore esperto e prolifico, con un sacco di titoli alle spalle e una passata presidenza della Crime Writers’ Association. Non ho mai letto nessuno dei suoi lavori più vecchi, e al momento non mi sento molto incentivata a farlo. Come può uno scrittore esperto produrre questa roba dilettantesca e grossolana? Come può una casa editrice con un nome (Allison&Busby) mandare in stampa una storia mal concepita, mal scritta e mal eseguita? Ma forse dell’editore non dovrei meravigliarmi troppo, visto che a nessuno da A&B è parso grave mettere dei soldati di era napoleonica sulla copertina di un libro ambientato nel 1708. Dovrei piuttosto chiedermi tutt’altra cosa: com’è possibile che la gente legga con entusiasmo dei libri che partono da un’idea potenzialmente buona e poi la macellano senza il benché minimo riguardo per l’intelligenza del lettore?