grillopensante · libri, libri e libri

Dentro un libro

Mentre cercavo la Survey of London di Stow* – che ho ritrovato quasi subito benché non fosse, per qualche motivo, nello scaffale elisabettiano – mi è tornato in mano Buio in Sala, di Camilla Salvago Raggi.

E perché in seguito non abbia mai letto nient’altro di questa signora – romanziera, saggista, poetessa, traduttrice dall’Inglese – proprio non so, perché Buio in Sala (sottotitolato Una serata all’Opera) è assolutamente incantevole. Un caleidoscopio di personaggi raccolti a teatro per un Werther di Massenet cantato da un tenore di culto – e tutti pensano, guardano, ascoltano, fanno scoperte su se stessi, sulla musica e sui massimi sistemi…  Se avete letto i miei Insorti di Strada Nuova forse riconoscerete qualche tipo di parentela ideale.

E non ho idea di che genere di successo abbia avuto Buio in Sala – spero sia stato notevole – ma sotto certi aspetti è un po’ una cosa da melomani. Io nel Novantasette, quando uscì e lo lessi, ancora non lo sapevo. Studiavo a Pavia, all’epoca, e l’opera mi piaceva – ma non ci andavo granché. Era qualcosa che coltivavo per lo più a forza di CD e letture di libretti – e l’occasionale spedizione a Mantova o Verona. A piacermi tanto era il modo in cui la faccenda era strutturata: un’opera come prisma di lettura per una carota di umanità.

Un po’ d’anni dopo, tuttavia, il mio melomanissimo Mentore decise che era tempo di passare dai CD alle platee, dando inizio alla mia stagione di pellegrinaggi operistici. Se siete appassionati d’opera, sapete come funziona: ci si sceglie un cantante e lo si segue. Io per un po’ seguii Thomas Hampson, baritono americano che in Italia cantava poco o nulla – e questo portò a un certo numero di blitz ferroviario-musicali in giro per l’Europa… Ah, mais j’étais jeune!**

E quando facevo queste cose, mi capitava abbastanza spesso di pensare a Buio in Sala e alla sua descrizione dell’ambiente che gira intorno all’opera… ma la prima, primissima volta che ciò accadde, fu a Jesi. La mia prima spedizione operistica overnight, in compagnia del Mentore, per l’unica ripresa (che io sappia) del Ruy Blas di Marchetti. L’opera fu quel che fu – ma il ricordo indelebile, è quello dell’attesa che aprissero le porte del Teatro Pergolesi, seduta su un qualcosa di marmo (panchina? Parallelepipedo decorativo?) in compagnia del Mentore, e dell’arrivo – a due, a tre, a singoli – dei melomani. Quelli che si conoscono tutti tra di loro. Quelli che chiamano i cantanti per nome. Quelli che “Ah, ma la Carmen al Liceu, nel Novantuno…”.  Io ero una faccia nuova – oggetto di curiosità blanda e benevola e appena un poco scettica, perché ero un compagnia di un membro piuttosto in alto nel pecking order, ma non si sa mai con questi giovani che iniziano e poi si perdono per strada…

E all’improvviso mi accorsi che ero dentro un libro. Ero dentro Buio in Sala fino all’ultimo dettaglio, con vertiginosa perfezione – tranne l’opera: anziché un Werther a Roma, un Ruy Blas a Jesi – ma chiaramente non importava poi troppo. Il mondo del libro, il colore, l’umanità ritratta… era tutto lì.

Capitano, questi momenti.

Come la sera della prima assoluta di Di Uomini e Poeti al Bibiena. Ad applausi finiti, a cena al ristorante con gli attori e una manciata di ospiti di riguardo. Ero seduta con due attori e una signora dell’Istituto di Cultura Italiana di Dublino (mi par di ricordare), con un calice di vino bianco in mano, e stavo rispondendo a qualche tipo di domanda, e intanto nel chiacchiericcio della sala continuavo a risentire gli applausi di nemmeno un’ora prima, e…

E di nuovo: dentro un libro. Mio, questa volta – o, se non proprio un libro, il mio primo tentativo di romanzo. Una faccenda d’ambientazione teatrale, e questa scena in cui un’autrice debuttante è a cena dopo la prima del suo primo lavoro. Gli attori, il ristorante, il vino bianco, l’eco degli applausi in sottofondo alla conversazione… why, avevo persino un vestito di crêpe di seta grigia – come quello che, anni prima, avevo scritto addosso al mio personaggio! Scelto per la serata senza pensarci minimamente, giuro – ma ci fu un momento in cui mi tornò tutto in mente… ero dentro un libro!

Ecco, dicevo: sono cose che capitano. Un respiro trattenuto, un ombra di vertigine, magari il tipo di sorriso che fa levare un sopracciglio all’interlocutore… No, è tutto a posto. Mi è venuto in mente… ma mi diceva della Carmen al Liceu, nel Novantuno? Chi cantava Micaela…? Ed è tutto passato.

E a voi, o Lettori? Vi è mai capitato di trovarvi per un attimo dentro un libro?

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* “Ma è mai possibile che tu stia sempre cercando qualcosa, o Clarina?” E che devo dire? Si direbbe che sia possibilissimo…

** Una volta o l’altra vi racconterò.

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Charlotte, Frances, Rudyard: Relazioni Non Intenzionali

booktiesCapita a volte di leggere qualcosa e riconoscerci l’ombra di qualcosa d’altro.

Una somiglianza nella trama, il profilo di un personaggio, un incidente, un posto… qualcosa che ha l’aria di un’ispirazione o di un omaggio. O a volte di una scopiazzatura – ma questo è un altro discorso.

Forse vi ho già detto di come il Will (Shakespeare) di Robert Brustein in The English Channel a me sembri irresistibilmente simile a quello di Shaw in The Dark Lady of the Sonnets. A parte tutto il resto, lo stesso modo di interrompere se stesso e tutti gli altri per annotare scampoli di conversazione – perché potrebbero tornare buoni…

Solo che tra i precedenti e le influenze del suo play Brustein non cita affatto Shaw.

Oppure la somiglianza che a me pare evidentissima tra la Piccola Principessa di Frances. H. Burnett e la vicenda del piccolo Kipling, così come compare nella sua autobiografia, ne La Luce che si Spense e in Bee Bee Pecora Nera. Voglio dire – e lasciate che vi metta qui una tabella:

SaraPunch

Si nota, non trovate? Si nota un certo qual parallelismo nelle due storie. Epperò poi si scopre che, apparentemente, l’ispirazione per Sara Crewe non ha nulla a che fare con Kipling. Pare avere radici, invece, nella Emma di Charlotte Brontë.

No, non mi sono sbagliata, non volevo dire Jane Austen. C’è una Emma brontiana – solo che è incompiuta e poco sconosciuta. C’è questa ereditiera abbandonata in un collegio… E quindi sì, le somiglianze ci sono – ma come la mettiamo con Kipling? In realtà Sara Crewe (in forma di novella a puntate) e Punch arrivano alle stampe lo stesso anno, il 1888 – e anzi, il primo episodio di Sara precede Punch di qualche mese. Ma Punch è troppo autobiografico perché l’ispirazione possa avere funzionato all’altro modo…

Che bisogna pensarne? Che capita di scrivere la stessa storia senza saperlo – cosa di cui sono dolorosamente consapevole dal giorno in cui ho scoperto che W.S. Maugham aveva già scritto quello che mi piaceva chiamare il mio primo romanzo, molti anni prima di me e molto meglio… Capita. A volta sembra impossibile che non ci sia una corrente di ispirazione, un ramo di parentela, un legame di qualche genere… e invece non c’è.

O meglio, c’è – ma non necessariamente quella che saremmo portati a pensare.

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* Il clima inglese… sì.

** E in realtà, da adulta non posso fare a meno di domandarmi: ma possibile che nessun’altra bambina ne faccia mai parola con i genitori? Insomma, fino a un certo punto Sara è la star del collegio, l’ereditiera dalle romantiche circostanze di cui la direttrice è sempre pronta a parlare agli altri genitori, perché avere una “principessa dei diamanti” tra le allieve è un motivo di vanto. Poi all’improvviso la rimarchevole ragazzina decade a sguattera maltrattata… Nessuna bambina ne racconta a casa? Nessun genitore leva un sopracciglio? Diciannovesimo secolo, I know, but…

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Caccia al Tesoro

scavenger-hunt-mapMai cercato disperatamente un libro? Non perché vi servisse, non per motivi di studio o di lavoro: solo perché lo volevate tanto. Adesso che c’è Internet capita assai meno, ma ho trascorso la mia adolescenza e prima giovinezza cercando l’uno o l’altro libro. Sempre qualcosa fuori catalogo, o qualcosa che non si trovava più, o qualcosa di pubblicato da uno sconosciutissimo mini editore di provincia…

E ogni volta che arrivavo in una città nuova, ogni volta che passavo davanti a una libreria mai vista prima, entravo e chiedevo. Era come avere una caccia al tesoro tutta mia, e quindi continuavo anche di fronte alla crescente evidenza che la maggior parte delle librerie erano diventate come farmacie: ti procuravano quello che c’era in catalogo; per il resto potevi attaccarti al tram e fischiare in curva. Biblioteche, lo confesso, meno possibile, perché non c’era altrettanto gusto. Voglio dire, trovare il tesoro e non potertelo tenere, averlo in prestito per un misero mesetto… No, non era la stessa cosa.

Dopodiché… qualche volta si trovava, qualche volta no. Qualche volta era proprio solo ostinazione pura, come per le memorie del Barone Rosso, trovate dopo anni di indefesse ricerche, falsi allarmi e delusioni. Altre volte era serendipità: La Bufera di Edoardo Calandra, scovata, tra tutti i posti possibili, in un istituto di vendite giudiziarie – quando ormai ci avevo rinunciato. O come la vecchia edizione BUR della Saga di Gösta Berling rinvenuta (insieme a varie altre meraviglie) al Parnaso, meravigliosa libreria pavese specializzata in edizioni fuori commercio. Ah, quante volte sono stata sul punto di chiedere al proprietario del Parnaso se non gli servisse una commessa, anche a metà stipendio… ma non divaghiamo, parlavamo di ritrovamenti miracolosi – con l’aiuto altrui, talvolta. Come il Corradino di Svevia di Salvator Gotta, ricordo d’infanzia apparentemente introvabilissimo, recuperato per me, alla fin fine, da un amico più abile e più ostinato. Altre volte ancora, invece, non ci si riusciva proprio. Nessun grado di cocciutaggine, nessuna serendipità e nessun aiuto bastavano: il libro non si trovava e basta.

E poi fu la rete. E confesso che mi ci volle un po’ prima di fare davvero amicizia con Internet – ma, una volta risvegliata alle sue meraviglie… ah! Immaginate Aladino nella grotta del tesoro, Alice nel Paese delle Meraviglie, Pinocchio in un Paese dei Balocchi senza ripercussioni asinine… Amazon, eBay, il Project Gutenberg, Internet Archive, Google Books, e tutto quanto… All’improvviso non c’era libro, non c’era articolo, non c’era play che fosse impossibile a trovarsi – o quasi.

Il che, a prima vista, parrebbe la fine della caccia al tesoro – ma naturalmente non è così: è solo che le regole del gioco sono cambiate, e la faccenda si è fatta enormemente più vasta, e ci sono così tanti libri in più da cercare… e anche così, i titoli davvero difficili ci sono ancora: la caccia è ancora in corso – eccome.

E sia chiaro: mi piacciono ancora tanto le librerie, i mercatini, le bancarelle – e ho anche fatto amicizia con le biblioteche. Ma vivendo in campagna e leggendo per lo più in Inglese, non c’è quasi giorno in cui, mentre inseguo romanzi dimenticati, fonti primarie e saggi sui corrieri diplomatici nel Rinascimento, non levi peana colmi di gratitudine all’esistenza della Rete.

E voi, o Lettori? Mai giocato a questo genere di gioco? Sono sicura di sì, almeno una volta… do tell!

 

 

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Presentazioni – una Guida Ragionata (Parte II)

BookLSi era parlato qualche giorno fa della Legge di Murphy applicata alle presentazioni di libri – dal punto di vista dell’autore del libro. Se n’era parlato per S., reduce dalla presentazione del suo primo libro… Yes, well – forse sarebbe stato meglio parlarne prima della presentazione – but still.

Poi salta fuori che S. si è convinta di essere un’autrice difficile da presentare, a causa di un’innocua e minuscola modifica alla scaletta… Oh, S. – no, credimi: gli autori difficili sono davvero, davvero un’altra cosa! La tua presentazione è stata liscia e gradevolissima da farsi. Alla tua presentazione è andato tutto bene. Sono ben altri gli inconvenienti veri per chi non ha il suo libro sul tavolo – e nessuno di essi, o S. si è prodotto alla tua presentazione!

Cominciamo dicendo questo: posto che proiettori, readers e gente stramba nel pubblico sono gioie da dividersi equamente tra autore e relatore, ci sono quelle tachicardie e quei travasi di bile che sono appannaggio esclusivo del secondo.

panels-clipart-panel-discussion-4C’è, in primo luogo, l’introduttore occasionale o istituzionale. Può essere il presidente dell’associazione culturale che organizza l’evento, può essere un altro scrittore amico del protagonista della serata, può essere il locale assessore alla cultura. In genere questo personaggio esordisce con “sarò breve” – e allora è il caso di preoccuparsi – dopodiché può lanciarsi in una serie di terrificanti attività. Può lasciarsi prendere la mano e prodursi in voli pindarici su argomenti variamente connessi con il libro sul tavolo – da aneddoti sull’infanzia dell’autore ai programmi dell’associazione fino al dicembre del 2019 – mentre i suoi due minuti si dilatano in una mezz’oretta. Col tempo s’impara ad inserirsi fermamente nel primo scampolo di pausa utile, ringraziare, sottrarre il microfono e passare oltre. D’altra parte, è ancora peggio quando l’introduttore, preso da entusiasmo, fa qualche affermazione notevolmente sbagliata sul libro o sull’autore, che poi starà a voi correggere con diplomatico garbo, se proprio non è possibile glissarci sopra. O ancora, potrebbe dire buona parte di quello che avevate intenzione di dire voi – nel qual caso potrete fare una di due cose: esordire dicendo che vi hanno bruciato molto terreno e poi girarci attorno, oppure girarci attorno senza spiegazioni. Oddìo, potreste anche ripetere imperterriti quello che è stato già detto, sperando di essere più originali, più brillanti e più memorabili, ma non è una strategia che mi senta di consigliare.

HwkPoi  c’è l’Esperto. L’Esperto voi non lo conoscete bene, è stato invitato dagli organizzatori perché sembrava una buona idea, perché ha scritto anche lui (ma non un romanzo) sullo stesso argomento, o per qualche altra ragione consimile. L’Esperto arriva salutando a mala pena, riserva un particolare gelo all’autore e guarda molto male anche voi. L’Esperto siede con aria di falchetto maldisposto mentre voi introducete l’argomento, presentate lui e l’autore e poi gli date la parola. L’Esperto prende fiato e, con un lucchicio famelico negli occhi, si getta sul romanzo e lo fa metaforicamente a pezzettini molto piccoli. Voi lo guardate inorriditi, scambiate occhiate piene di pathos con il presidente/assessore/organizzatore, sorvegliate con ansia la montante crisi isterica dell’autore. Quando finalmente si ferma, satollo di strage e compiaciuto, voi cercate di smussare la situazione parlando della vivacità del dibattito, del fascino degli argomenti controversi, delle meraviglie della licenza artistica – il tutto inalberando il vostro miglior sorriso e guardando negli occhi a turno tutti gli spettatori visibili. Forse riuscirete a ipnotizzarli nella convinzione che non sia successo nulla di spiacevole. Intanto, non trascurate di rivolgere una piccola prece al Cielo, perché rafforzi i nervi e il sense of humor dell’autore.

AuthorGià, perché c’è anche l’autore. L’autore, pensate voi, dovrebbe essere l’ultimo dei problemi, giusto? Voi siete lì per parlare bene del suo libro, per stimolare un’interessante discussione in proposito, per contenere l’esuberanza dell’introduttore, dell’esperto e del pubblico. L’autore dovrebbe essere solidale e grato, giusto? E quindi abbassate la guardia e, quando l’autore scorre con gli occhi la scaletta che avete concordato e vi chiede se può fare lui il reading al vostro posto, voi dite che sì, certo… “magari ci alterniamo”. Lui/Lei sorride con aria che, ripensandoci a presentazione passata, vi parrà molto meno innocente di quanto sembri al momento. Avrete modo di rimpiangerlo quando, invece del paragrafo concordato, l’autore andrà avanti a leggere due pagine intere, mentre il pubblico comincia ad agitarsi sulle sedie. Per la prima volta fate finta di nulla – pensate persino a un piccolo equivoco. “E adesso, vuoi leggerci questo paragrafo, X?” specificate al momento della seconda lettura, e indicate per bene con il dito. Ma X sfora di nuovo, ed appare chiaro: l’autore ha una sua agenda – che non è quella concordata. A questo punto, non resta che riprendere in mano la situazione. Senza parere, a lettura terminata, spostate scaletta e libro fuori dalla portata dell’autore e, alla lettura successiva, annunciate la vostra intenzione di leggere un paragrafo che vi ha colpiti particolarmente. Procedete così, fermi e sorridenti, fino alla fine. C’è anche un’eventualità peggiore: che l’autore si risenta di qualche domanda o qualche argomento, e allora c’è poco da fare. È una di quelle situazioni-mentadent in cui programmare le domande in precedenza aiuta – bilanciate il vostro gusto per la spontaneità dell’intervista con il caso di sgradevolezze, considerando che mettere pubblicamente alla griglia un autore non diventerà mai una disciplina olimpica.

E con questo siamo ben lungi dall’avere esaurito le possibilità d’incidente. Considerate questo post come uno di quei cartelli stradali “pericolo cervi – 3 km”: non significa che per tre km possano capitare solo cervi, ma almeno si sa di dover stare attenti ai cervi in particolare.

pennivendolerie

Presentazioni: Una Guida Ragionata

BookLaunchSi parlava di recente di presentazioni – e dicevo che presentare libri è una di quelle attività regolate da una versione specifica della Legge di Murphy: certe cose tendono ad accadere e basta, e quindi tanto vale prepararcisi.

1) Se c’è un proiettore, non è affatto detto che funzioni. Avrete la vostra presentazione powerpoint, con tutte le belle, significative immagini che avrete impiegato ore a raccogliere, scaricare, mettere in ordine, fornire di didascalia… ma il proiettore non vorrà saperne. Oppure il computer collegato al proiettore non vorrà saperne. Oppure non ci sarà il computer a cui collegare il proiettore. Oppure non ci sarà il proiettore. Oppure ci saranno entrambi, ma il proiettore soffrirà di una rara malattia congenita in base alla quale va in stand-by ogni volta che viene lasciato a se stesso per più di un minuto e mezzo, e poi richiede complessi riti tribali per riprendere a funzionare. Per cui, predisponete le vostre immagini, ma siate preparati a farne senza.

2) Se c’è un proiettore che non funziona, è del tutto possibile che qualcuno si faccia venire le convulsioni alla prospettiva di una presentazione senza immagini. L’organizzatore/trice, oppure chi vi deve intervistare, insisterà disperatamente perché si provi a rimettere in funzione l’arnese defunto, e farà ritardare l’inizio, facendo innervosire da matti l’altro/a relatore/trice. Per non parlare del pubblico in sala. A questo punto potrà succedere qualche tipo di miracolo, oppure no, ma intanto comincerete in ritardo.

schedule3) Se non avete concordato una scaletta, non stupitevi se qualcuno all’ultimo minuto se ne salta fuori con un incrocio tra il ruolino delle grandi manovre estive e una visita di stato dell’Imperatore del Giappone. “Poi tu accenni alla tua formazione letteraria, ma ti fermi prima di parlare degli anni dell’Università, perché lì inseriamo il pezzo al flauto traverso, una domanda sugli autori inglesi che più ti hanno influenzata, il filmato e poi il relatore introduce, e poi tu potresti dire, e poi gli attori partono col reading…” Sorridete, contate sul fatto che qualcuno vi rivolgerà le domande giuste al momento giusto, e non opponetevi se non in casi estremi: di sicuro c’è già abbastanza confusione così com’è. La vera preoccupazione sono i tempi – ma vuol dire che la prossima volta, concorderete preventivamente una scaletta sensata in pochi – pochissimi punti.

4) Se avete concordato una scaletta, d’altro canto, è altamente probabile che qualcuno non la rispetti, prendendo iniziative dell’ultimo momento, divagando selvaggiamente, dimenticando del tutto qualcosa di vitale e, in generale, gettando nel panico voi, l’altro relatore, gli attori e/o musicisti e, occasionalmente, il pubblico. Considerate poi la completa serendipità di casi&accidenti come relatori influenzati, cellulari che squillano, gente bizzarra tra il pubblico… Reagite con sense of humour, o almeno fingete; piangerete più tardi a casa.

5) Se il relatore vi conosce dall’infanzia, non è improbabile che si lasci trascinare dall’affetto e ne approfitti, tirando fuori a tradimento domande (o affermazioni) che vi metteranno in orribile imbarazzo, o che vi faranno commuovere nel momento meno adatto. Oppure, potrebbe punzecchiarvi per tutto il tempo in un modo che è moneta corrente tra voi da quando avevate cinque anni, ma sconcerta un nonnulla il pubblico. Chiarite prima che, se si azzarda a fare qualcosa di simile, vi farete un braccialetto con i suoi molari.

6) Se credete che la probabilità di errori con il vostro cognome e/o il titolo del libro sia proporzionale alla quantità di sillabe, può darsi che abbiate ragione. Tuttavia, anche se vi chiamate Nina Bo e avete scritto Eco, preparatevi alla definita possibilità che qualche anziana signora vi complimenti calorosamente per il libro di qualcun altro, o che il vostro amato titolo compaia sulla stampa locale in forme eterodosse.

7) Se c’è qualcuno che vi fa il reading, discutete prima ogni singolo nome proprio – di luogo e di persona – ogni singolo vocabolo specialistico, ogni singolo accento inconsueto. Non date nulla per scontato e poi preparatevi all’idea che qualcosa vada storto da questo punto di vista. E non perché il vostro reader non sappia il suo mestiere o sia approssimativo, ma perché questo è uno dei tanti modi in cui il Fato Imperscrutabile maltratta gli scrittori. Sort of.

8) Se vi si presenta insieme a qualche altro autore, non sempre capirete in base a quale criterio vi abbiano accostati. Considerate che anche gli organizzatori a volte perdono il sonno su dilemmi come: meglio due autori dello stesso genere che poi magari si fanno a pezzettini, o meglio due autori del tutto eterogenei, che non c’entrano troppo l’uno con l’altro, ma presumibilmente non si accapiglieranno? Resta il fatto che l’accostamento tra due o più autori può essere molto stimolante o molto truculento: salvo precedenti accertati, è difficile prevedere quale dei due. In linea generale, meglio andare senza preconcetti, intenzionati ad essere cordiali, ma non impreparati alla battaglia.AudQuest

9) Se c’è lo spazio per le domande del pubblico, siate preparati tanto al silenzio di tomba* quanto alle evenienze più bizzarre. Qualcuno rapsodizzerà per cinque minuti pieni senza che capiate di preciso qual è la domanda; qualcuno accennerà vagamente a voi per poi passare a parlare di sé; qualcuno vi farà domande intelligenti e acute, alle quali è una gioia rispondere; qualcuno vi accuserà con molto vigore di avere calunniato il vostro arcimalvagio tardorinascimentale e di essere, per questo, scrittori poco seri; qualcuno vi chiederà quanto c’è del vostro vissuto personale in quello che scrivete; qualcuno domanderà qualcosa che vi parrà di avere già spiegato diffusamente nel corso della presentazione – o in risposta alla domanda precedente… Col tempo svilupperete una serie di risposte standard per le emergenze, e una certa destrezza nel ricondurre il discorso verso una carreggiata qualsiasi, ma non illudetevi: qualcuno riuscirà sempre a lasciarvi interdetti.

10) Se alla fine firmate le copie vendute, chiedete sempre a chi dovete dedicare. Sempre. Anche se credete proprio di ricordarvi chi è la persona che avete davanti. Soprattutto se credete di ricordarvene. È brutto abbastanza fare una gaffe a voce, e credetemi: non volete farla per iscritto sulla copia del vostro libro che la vittima ha appena comprato.

Ecco qui. Non è tutto quello che può succedere, ovviamente, perché non c’è limite a quello che il Cosmo può decidere di scaraventare nella vostra direzione mentre presentate un libro, ma queste sono alcune evenienze più comuni di altre. Mi pare che mi sarebbe piaciuto sapere di dovermele aspettare, quando ho iniziato a presentare libri. Non avrei potuto fare nulla per evitarle, si capisce, ma almeno mi sarei risparmiata qualche episodio di tachicardia acuta.

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* E, per il caso, non è una cattiva idea prendere accordi per una domanda qualsiasi con un complice seduto in platea. Non è necessariamente detto, ma è frequente che il pubblico aspetti soltanto un apripista…

libri, libri e libri · Utter Serendipity

Piovono Libri

books-illustrationLa triste verità è che non leggo più come un tempo…

In realtà credo che il tempo che dedico alla lettura tout court non sia necessariamente diminuito, perché leggo un sacco per lavoro, per studio e per documentazione, e la lettura è lettura – ma ci sono stati tempi, anni, decenni in cui divoravo felicemente romanzo dopo saggio dopo romanzo…

Ricordo che da implume, quando mi si chiedeva dei miei hobbies, non mi passava nemmeno per il capino di citare la lettura, perché la lettura non era uno hobby – era… oh, non so: una forma di respirazione?

Ah, bei tempi. Adesso sono ridotta al triste punto in cui due-tre giorni, o al massimo una settimana di letturaletturalettura costituiscono la mia più felice, desiderabile e dorata idea di vacanza, da concedermi un paio di volte l’anno nella migliore delle ipotesi.

raining booksIeri sera, tuttavia, ho avuto una specie di pioggia di perseidi libresche.

È capitato che partissi presto per la città, nell’intento di pasare, prima delle prove, in biblioteca a ritirare un prestito bibliotecario appena arrivato: John Donne – Life, Mind and Art, dell’elisabettianamente nomato John Carey. E mentre me ne venivo via col mio bottino (un grazioso librino, proveniente dalla Sala Borsa di Bologna – e prima, a giudicare dai timbri, dal British Council), mi si chiama da casa per comunicare che un corriere ha appena consegnato un pacchetto di Amazon.  Ed è The Master, di Colm Toìbin – un romanzo che ha per protagonista Henry James, con particolare enfasi, I think, sul suo fiasco teatrale.

Bizzarra coincidenza, penso tra me – e tanto più perché so che c’è un pacchetto della Historical Novel Review ad aspettarmi in Teatrino.

Ora, forse vi ho già detto e forse no che, dalle mie rurali parti, la consegna della posta è così inaffidabile, lenta ed erratica che, dopo un paio di disguidi che hanno rischiato di costarmi il lavoro, ho cominciato a farmi spedire i pacchi della HNR presso amici che abitano in città. Ebbene, sabato E. mi aveva telefonato per comunicarmi che era arrivato “un libricino” per me, e che me lo avrebbe lasciato in Teatrino… C0sì, appena giunta, ho cercato nel cassetto in biglietteria, e ho scoperto che il “libricino” era in realtà un pacco enorme, contenenti due grossi hardback per un totale di ottocentosettanta pagine. a58537d99af4544c9d73962306ea2f58

“Laggiù sull’Isoletta temevano che ti annoiassi?” ha sghignazzato M., guardandomi aprire il malloppo ed estrarre i tomi. “Leggi, leggi!”

E quello è stato l’istante in cui mi sono resa felicemente conto di quanta lettura ho davanti nel prossimo paio di settimane – grazie alle scadenze della HNR, ai tempi di restituzione dei prestiti interbibliotecari e a cose del genere.  In realtà per Toìbin non ci sarebbe nessuna fretta – ma date le circostanze, perché non infilarlo tra le Perseidi ed estendere la maratonetta di lettura?

Una biografia, un giallo storico, un romanzo biografico, un fantasy storico… E ci sono di mezzo un saggio e un festival teatrale: suona perfettamente felice, vero?

grilloleggente

Dieci Personaggi Letterari Che Detesto

img274A volte vado fuori a cena con gente anche più squadrellata di me, si fa tardi chiacchierando e al dessert si fanno discorsi così. Chi sono i personaggi letterari che detestiamo? Quelli che proprio ci danno l’orticaria? Quelli con cui non vorremmo mai ritrovarci a condividere uno scompartimento in treno – let alone una vita intera? Ecco, questa è la mia lista.

1) Il Pio Enea. Lo so, l’ho già citato altrove, ma non posso farci nulla. Alla sola idea del Pio Enea mi va il latte alle ginocchia e poi si caglia. Questo abbandonatore seriale di mogli e regine, questo rapitore di fidanzate altrui, questo sopraffattore di nemici in combattimento sleale… e ci si aspetta anche che lo ammiriamo.

2) La Piccola Nelln in The Old Curiosity Shop. Non so immaginare che cosa avesse in mente Dickens quando l’ha scritta, questa statuina di zucchero. Eppure pare che all’epoca le folle fossero così ansiose di commuoversi sul fato dell’Angelica Orfanella! Ogni volta che penso alla folla che aspettava i transatlantici al porto di New York per sapere dai passeggeri se la Nell di Boz fosse morta, mi viene in mente Oscar Wilde: “Bisogna avere un cuore di pietra per leggere la morte di Nell senza ridere.”

3) Amelia Sedley, nella Fiera delle Vanità. Quanto bisogna essere stupidi per non accorgersi che George è un idiota fatuo, per credere pervicacemente che Becky sia una cara ragazza, per non vedere nemmeno il povero e devoto Dobbin? Che poi, ripensandoci, anche il povero e devoto Dobbin merita la sua parte di biasimo: quanto bisogna essere stupidi per innamorarsi di Amelia e restarlo per decadi?250px-Jenny_Dolfen_-_Frodo_Baggins

4) Frodo Baggins. Frodo parte innocuo, simpatico e leggermente buffo, da buono hobbit. Poi comincia ad assumere quel contegno nobile e sofferente e superiore e, ad essere del tutto sincera, da metà de Le Due Torri in poi sono pronta a buttarcelo io, giù da Monte Fato.

5) Il Piccolo Lord Fauntleroy. Oh, per amor del cielo! E’ davvero signorile, da parte del nonno, non affogare l’impiastro nello stagno delle carpe.

6) Antonio, l’eponimo Mercante di Venezia. Non è che Shylock sia una cara persona, ma Antonio che lo insulta e lo umilia, salvo supplicarlo di prestargli il denaro e di concedergli la proroga, per poi tornare agli insulti e alle umiliazioni nel momento in cui è fuori pericolo, è insopportabilmente peggio.

7) Pollyanna. Lei e il suo gioco della felicità. Lo so: si suppone che la trovi tenera, adorabile e un monumento all’ottimismo, ma credo che a questo punto si sia notato che possiedo un certo quale spirito di contrarietà. Più l’autore m’ingiunge di adorare un personaggio, più è facile che lo detesti.the_sorrows_of_young_werther

8) Il Giovane Werther. Sveglia, ragazzo, sveglia! Intanto che lui ci rimugina su, che bacia i bigliettini e si fa andare la sabbia fra i denti, che gioca con i fratellini, Lotte ha sposato un altro. E credete che lui si rimuova? Nemmeno per idea. Resta lì, rende infelice sé stesso e Lotte, e anche Albrecht, che non ha nessuna colpa. E per coronare il tutto, si suicida con la pistola di Albrecht, chiesta in prestito a Lotte. Bestiaccia meschina!

9) Antonina, nel Count Belisarius di Graves. Come, come, come può Belisario – non dico innamorarsi, ma restare innamorato per tutta la vita di questa donna volgare, intrigante e voltagabbana?

10) Pinocchio. Capisco che è di legno, ma solo io ho l’impressione che si butti con criminale allegria in tutte le situazioni stupide e pericolose che gli si parano davanti? Non sono mai riuscita a dispiacermi per Pinocchio, nemmeno da bambina.

Ecco qui. Mi si dice che dovrei detestare la gente malvagia, non le brave persone, non i protagonisiti eponimi, non le deliziose bambine e i valorosi eroi. Che posso farci? Si vede che, nella mia percezione tortuosa, ci sono crimini peggiori delle azioni malvagie propriamente dette. Magari, come diceva il mio maestro delle elementari, sono dura d’animo.

E voi, o Lettori? Che gente di carta detestate?

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Pasqua Per Iscritto

Hand-Written-Easter-Eggs-587x395Cominciamo col dire che Pasqua non è Natale: non ci sono legioni di autori ansiosi di servirsi dell’atmosfera pasquale per ambientarci qualche bella scena commovente e significativa. Sarà perché, tutto sommato, si associa molto meno mistero, magia ed emozione a Pasqua? Non intendo questo da un punto di vista religioso, naturalmente, ma è un fatto che non esiste nemmeno una “atmosfera pasquale” propriamente detta. Primavera, sì, violette, uova e pulcini, e le processioni del venerdì santo con le fiaccole, ma non lo si può negare: c’è molta meno suggestione emotiva. Per verificarlo a livello molto spicciolo, basta contare il numero di spot pubblicitari che capitalizzano su Pasqua: tolte le uova di cioccolato, nulla, zero, zip.

Ciò detto, in letteratura?

Untitled 1Prima di tutto, sembra esserci più poesia che prosa. Se si cercano poesie pasquali, si parte da Jacopone da Todi, ma poi si trova parecchio fra Otto e Novecento: in ordine sparso, Manzoni, Pascoli, Christina Rossetti, Browning, Ada Negri, Gozzano, Yeats, per citarne qualcuno.

In prosa va peggio.

C’è un racconto di Checov che si chiama Vigilia di Pasqua, ma trattandosi di Checov è tutto fuorché quello che ci si aspetta.

C’è la Pasqua di Strindberg, che per chiunque altro sarebbe feroce e desolata, ma trattandosi del buon August è quasi lieta. Se non altro non finisce con un conto cadaveri.

C’è la Settimana Santa religioso-mondan-adulterina degli Uzeda ne I Viceré, dove si descrivono minutamente i riti, Consalvo fa il chierichetto, e il Conte Raimondo corteggia donna Isabella Fersa persino nella canonica del Duomo.

C’è la Pasqua povera dei Malavoglia, col debito da pagare, i fiori per tutta festa, e il triste matrimonio della Mena.

Hanno Ammazzato Compare Turiddu!.jpgC’è la mala Pasqua sanguinosa di Cavalleria Rusticana, col duello campagnolo tra Alfio e Turiddu (prima della messa nel racconto, subito dopo nell’opera, perché non si buttano via le occasioni musicali…)

E c’è la Pasqua in collegio di Emi Mascagni che, fedele al suo stile, personifica i giorni della settimana santa: martedì è un discolo, mercoledì ha un’aria d’importanza, giovedì è sordo e amaro, venerdì triste… e tutti si aggirano per il Collegio, osservando non visti (ma sentiti assai) i preparativi di ragazze, insegnanti e servitù.

In definitiva, quella della Mascagni è la Pasqua più emotiva – e la più lieta, – quella di Checov è molto russa (e con questo abbiamo detto tutto), e le varie Pasque siciliane comportano vari gradi di amarezza. Per trovare un trattamento più strettamente religioso – ma per nulla narrativo – del tema bisogna rivolgersi alla poesia, per trovare della letizia… francamente non saprei.  61zqkLA+NxL._AC_UL320_SR224,320_

A meno di voler considerare un caso completamente diverso, vale a dire i gialli medievali. Non ricordo il titolo, al momento, ma uno dei misteri di Fratello Cadfael, di Ellis Peters, è ambientato attorno ai preparativi per la Pasqua, e non mi stupirei se qualcosa di simile avesse fatto anche Candace Robb. Questi vanno a finire bene, nel senso che l’investigatore scopre sempre il colpevole, e la Pasqua serve più che altro per il valore dello sfondo storico e particolare, essendo Cadfael un monaco benedettino, e Owen Archer il capitano delle guardie dell’Arcivescovo di York. Quindi, ci sono ma fanno testo fino a un certo punto: l’Inghilterra in questo caso recupera come fondale il suo passato cattolico, e forse alla fin fine la questione si è che alla Pasqua letteraria è mancato un Dickens?

Una cosa sembra certa: il lieto fine a Pasqua è decisamente un bestia rara e, considerando che festa di risveglio, risurrezione e nuovi inizi sia, la faccenda è quantomeno bizzarra, nevvero?

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Libri di Famiglia

dersu-uzala-0-230-0-345-cropTre anni fa – o per la precisione tre anni e tre giorni fa – postavo di giornate ventose e di Buzzati, e del modo in cui Buzzati avesse figurato nella mia infanzia, tramite il mio buzzatianissimo babbo.

Poi nei commenti si parlava con D. di libri e genitori, e io concludevo dicendo che una volta o l’altra averi raccontato l’assai meno idillica stroria di mio padre, Dersu Uzala e me… As I said, sono passati tre anni e tre giorni – ma eccomi qui. Dersu Uzala.

Se non sapete di che si tratta, non agitatevi: non credo che siamo precisamente legioni ad aver letto il noiosissimo libro del capitano Vladimir K. Arsen’ev… Io sì – o non starei scrivendo questo post – ma non di mia iniziativa.

DersuCapitò, alas and alack, che ce ne fosse un’edizione scolastica tra le pile di libri per l’Ora di Narrativa che ogni anno le case editrici mandavano in visione a mia madre insegnante. Mio padre questa storia di esplorazioni russo-asiatiche l’aveva letta con gran gusto, e la citava spesso (di solito quando andavamo per boschi – ma non solo), e aveva apprezzato molto anche il film omonimo di Kurosawa… quando vide il librino, con un fotogramma del film in copertina, lo estrasse dalla pila e me lo mise in mano.

“Ah, leggi questo,” disse. “Vedrai.”

E lo metto in corsivo per sottolineare come fosse il genere di “vedrai” che di solito prometteva meraviglie… Ebbene, a otto o nove anni non solo ero una bambina obbediente, ma nutrivo anche molta fiducia letteraria nei miei adulti. Per di più, come dicevo sopra, tutta la faccenda era spesso citata e dunque in parte familiare: era come conoscere finalmente qualcuno di cui si era tanto sentito parlare. Così mi misi a leggere… e mi annoiai oltre ogni dire. Dersuuzala

Ora, sono passati parecchi anni, ma mi par di ricordare che il buon Capitano Arsen’ev raccontasse con passo assai sedato e soporifera dovizia di dettagli, indugiando all’infinito sull’abilità e preternaturale saggezza della sua eponima guida indigena… e sono ragionevolmente certa che nulla succedeva – o non granché. Così piccola, e già ossessionata dalla fabula…  Ad ogni modo, finii il libro, perché i libri si finivano sempre, e poi comunicai a mio padre che no, non mi era piaciuto molto.

“Mi sono annoiata,” dissi.

La reazione non fu particolarmente buona. Mi ero annoiata? Come potevo essermi annoiata? Un libro così bello, così poetico, una storia di viaggi ed esplorazioni, e quest’amicizia tra il narratore e Dersu… Come potevo? Di certo non lo avevo letto bene?  Come dicevo nel commento al post su Buzzati, è del tutto possibile che una lunga carriera nell’Esercito renda  impervi alla possibilità che un libro che si adora possa non essere proprio la tazza di tè di qualcun altro… il mio babbo proprio non si capacitava che Dersu non mi piacesse, e riteneva suo dovere convincermi del contrario.

dersu-uzala-md-webPeriodiche insistenze perché rileggessi, discussioni, sarcasmo, ricatto morale, baratti*, il film… non c’erano molte tattiche a cui il genitore non fosse disposto a ricorrere nel suo zelo missionario – senza cogliere che più lui insisteva, più si cementava la mia avversione per il povero Dersu. Si cementava al punto che ancora oggi, la sola idea di riprendere in mano il libro mi scombussola: da un lato, sarei curiosa di vedere se, da adulta, possa vederlo diversamente; dall’altro, la reazione automatica è la fuga…

E alla fin fine non lo so: immagino che, a suo modo, anche Dersu Uzala sia un libro che ho in comune con mio padre. Non come lui avrebbe inteso, surely, ma in più di una maniera difficile da ignorare, attraverso svariati decenni. Tra le altre cose, fu un’esperienza miliare del fatto che i miei adulti non sempre avevano necessariamente ragione – almeno non in fatto di libri… Di sicuro anche questo conta, non pensate?

Voi che ne dite, o Lettori? Libri in comune – nel bene e nel male…?

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* “Io leggo X se tu rileggi Dersu…”

 

libri, libri e libri · Vitarelle e Rotelle

Noi

Jensen.jpgPer varie ragioni – tutte piuttosto contorte – nel corso del finesettimana mi è capitato di riprendere in mano La Leggenda degli Annegati, di Carsten Jensen (Rizzoli, 2007), che è un libro singolare e affascinante.

La storia è epica, crudele e un po’ cupa, e segue le vicende di una cittadina danese e dei suoi abitanti, tutti pescatori e marinai, dal 1848 (con tutto quel che la data comporta) fino alla Seconda Guerra Mondiale. A Marstal le generazioni si susseguono, la gente nasce, muore, va in guerra e qualche volta ne torna, le navi vengono costruite, fendono il mare, fanno naufragio o vengono messe malinconicamente alla fonda. Il romanzo ha un passo e un respiro imponenti, quasi à la Conrad, ma non è questo il punto.

Le descrizioni sono nitide, taglienti e luminose, come se fossero incise nel vetro. Cose come “Holger Jepsen era piccolo, Era nerboruto come se lo scheletro fosse stato avvolto di canapi, ma era gracile a vedersi.” Oppure “Il mare era gelato, come se la piatta isola crescesse e cercasse di fondersi con tutte le isole circostanti”. Molto uso di similitudini, molta asciuttezza, molte sfumature di bianco, grigio, azzurro e nero, molta luce nordica, chiara e impietosa. Molto bello, ma nemmeno questo è il punto.

Dialoghi e personaggi suonano fuori dal tempo, ma non perché siano anacronistici: hanno la rigidità deliberata del ghiaccio, dei panneggi di stoffa pesante, o del linguaggio dei miti. Il risultato è efficace e vivido, ma neppure questo è ancora il punto.

Il punto… well, se volete conservarvi la sopresa forse vi conviene fermarvi qui, e tornare a discuterne con me dopo che avrete letto il libro.

Siete ancora qui?Sailors

Well, then, se non tenete particolarmente alla sorpresa – o se volete sapere che cosa aspettarvi, allora diciamo che il punto è quella prima persona plurale, quel “noi” che fino a pagina 501 funge da voce narrante. Chiunque sia il personaggio al centro della narrazione, nella scuola del villaggio come sulla tolda di un mercantile, il narratore è sempre Noi. Gli uomini di Marstal, l’equipaggio di una nave, il reggimento… Noi. È come se fosse sempre Marstal a raccontare, non tanto con i suoi vivi quanto i suoi morti: eccoli, gli annegati, perduti in mare mentre la città fioriva e decadeva, che ancora fanno causa comune con i vivi per raccontare le loro leggende. Ma quando il senso della comunità sparisce, quando la città perde le sue tradizioni, quando le navi a vapore scacciano dal mare i velieri, allora il coro narrante svanisce, sostituito da una narrazione in terza persona limitata. Allora, tra pagina 501 e 502, in qualche modo, il colore e il tono della storia cambiano. Non davvero, perché lo stile rimane lo stesso, ma la voce – ah, la voce è un’altra. O meglio: è una sola, dove prima era un coro  di sussurri. Se anche non ce n’eravamo accorti in precedenza, sentiamo immediatamente il cambiamento – del racconto e di tutto un mondo – nelle prime righe di pagina 502.

Tecnica, meravigliosa tecnica. Non avevo mai visto nulla del genere prima di leggere La Leggenda degli Annegati. Sembra una scelta stilistica da nulla, ma è di una potenza sconvolgente: oh, che cosa non si può fare con le parole, a patto di saperle usare!