Mi piacciono le storie narrate in prima persona.
Mi piace condividere lo sguardo del narratore. Mi piacciono le voci narrative individuali che si creano, con i quirks espressivi, le considerazioni personali, gli errori di valutazione e le menzogne. Mi piacciono le sterminate possibilità aperte alla caratterizzazione. Mi piacciono i modi obliqui in cui si mina l’affidabilità del narratore in I persona. Mi piacciono gli sfondamenti della IV parete. Mi piace che, al prezzo della sospensione dell’incredulità, venga l’impressione che il narratore stia raccontando la storia proprio a me.
Dopodiché si dirà che, dal punto di vista dello scrittore, la I presenta inconvenienti come una pericolosa facilità alla divagazione per prati del tutto imprevisti, e il limite di una sola testa su tutta la popolazione del romanzo.
Non saprei. Da un lato non ho serie obiezioni all’occasionale divagazione ben scelta – e non ho mai notato che la III Persona (di qualsiasi colore) trattenesse gli autori dal divagare*. Né, in via generale, mi getta nello sconforto non sapere quel che accade al di fuori della particolare testa in cui mi trovo.
E ammetto che ci sono circostanze in cui è bene per la narrazione che il lettore ne sappia di più di quanto possa sapere il narratore, ma se devo dire la verità, mi piacciono persino gli escamotages che l’autore smaliziato usa per girare attorno al limite.
D’accordo, l’occasionale capitolo o scena narrato in III raramente è più che funzionale, ma ci sono soluzioni più eleganti.
Per esempio incrociare due narrazioni in I, come fa Stevenson in The Master Of Ballantrae – che, l’ho detto ancora, dovrebbe essere testo obbligatorio per lo studio del narratore inaffidabile. È difficile credere al Colonnello Burke, vanitoso, vago e portato a sconcertanti interpretazioni dei fatti cui assiste – eppure la storia che traspare dalle sue illusioni e dai suoi fraintendimenti riesce a minare anche la credibilità di Ephraim McKellar, la cui narrazione si rivela all’improvviso molto più partigiana di quanto si potesse sospettare a prima vista.
Anche Conrad tende ad essere sofisticato in proposito – almeno quando scrive solo, ma facciamo un patto: le collaborazioni con Ford Madox Ford non contano, d’accordo? Altrove troviamo vertiginose prospettive di punti di vista, con gente che racconta storie riferite di terza mano. Il mio caso conradiano preferito è Lord Jim**: Marlow è un narratore in I con una tendenza alla speculazione interpretativa che, per di più, tra il momento in cui ha assistito a parte della vicenda di Jim e quello in cui lo racconta sulla veranda del Malabar Hotel, ha raccolto storie, ricordi e impressioni altrui. Il risultato è una narrazione quasi rapsodica, con un intrecciarsi di I e III sempre legate dall’interpretazione di Marlow – basata sulla sua esperienza diretta. Il tutto è racchiuso tra un inizio in III persona più o meno onnisciente e l’amarognola dichiarazione d’inaffidabilità da parte di Marlow, secondo cui in realtà nessuno ha capito Jim – meno di tutti Jim stesso. 
in Entered From The Sun, George Garret fa qualcosa di ancor più complesso, cucendo insieme una collezione pressoché sterminata di punti di vista fluttuanti all’interno di una narrazione in I da parte di un personaggio che, fin dalla prima pagina, dichiara di non sapere per primo quando mente e quando dice la verità – pur essendo in posizione di sapere parecchio di quel che pensano gli altri personaggi. O almeno così crede. O almeno così dice – e non è come se il lettore avesse la minima ragione di fidarsi di lui. Ammetto che non è la lettura più agevole del creato universo, ma ha un suo notevole, iridescente, faticoso fascino.
Non del tutto dissimile, ma molto più liscia è la voce narrante che Patricia Finney ha costruito per Firedrake’s Eye. Tom o’Bedlam è scisso tra il folle Tom, che parla con gli angeli, danza con la luna e ha paura solo del suo passato, e The Clever One, che parla di se stesso come “noi”, mendica nelle strade, ricorda i suoi giorni di gentiluomo e attribuisce agli angeli di Tom la facoltà di aprire “finestre nelle anime degli uomini.” Ne esce un narratore in prima persona che sa tutto e non è interamente affidabile su nulla, con l’occasionale burst di poetica visionarietà. Quanto mai attraente ed efficace.
E potrei citare anche un raro caso di I Persona Plurale: La Leggenda Degli Annegati, di Carsten Jensen, in cui la voce narrante appartiene agli uomini di Marstal, gli annegati e i vivi – fino quando la piccola comunità marinara perde le sue navi a vela, le sue tradizioni e il suo senso di appartenenza. E allora, in un passaggio di notevole eleganza e potenza, la voce narrante migra da Noi a una III tra l’onnisciente e il generico, cambiando del tutto l’atmosfera e il tono.
E la morale è, come al solito, che non finisco mai d’incantarmi di fronte alle possibilità di un consapevole e raffinato uso della tecnica. Ma non sono strettamente necessari i fuochi d’artificio: a parità di buona e solida storia, a parità di buona e coerente voce, datemi anche una pura e semplice I che abbracci limiti e possibilità assieme – e ci sono buone probabilità che riusciate a farmi felice.
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* Alzi la mano chi ha letto I Miserabili senza saltare nemmeno una riga…
** You saw it coming. Yes, you did.
Ricordate quel che dicevamo qualche giorno fa
La reazione di cui sopra mi ha fatto venire in mente 
Si parla di finali ancora, o Lettori – per cui, se siete di quelli cui non piace parlare di finali non letti, forse questo non è il post per voi. Altrimenti, onwards.
Fine. Dopo tutte quelle avventure e peripezie… tutto qui? Non è nemmeno davvero questione di appendere personaggi e lettori a una scogliera: Alan sembra bene organizzato per fuggire in Francia, e per un po’ dovrà abbandonare la rischiosa carriera del corriere giacobita. Vero è che, trattandosi di lui non si può mai dire – ma la cosa peggiore a questo punto è che i due amici non contano davvero di vedersi mai più. Hence il freddo al cuore. E David… si sta imbarcando in un’altra odissea potenzialmente pericolosa, è vero – ma diciamolo: dopo i pericoli, i rapimenti, i naufragi, la violenza e le fughe nella brughiera dell’orfano diseredato, i potenziali guai giudiziari del ricco gentiluomo si promettono un pochino blandi. E comunque, al di là delle nobili intenzioni, nemmeno li vediamo, questi guai, perché tutto finisce… sulla soglia di una banca.
E comunque c’era il seguito all’orizzonte – o almeno l’idea di un seguito. Nella postfazione, Stevenson sostiene di avere ancora molto da dire su questi due improbabili amici – solo che gli editori e il pubblico siano interessati. Se così non fosse, e quasi a titolo di riparazione, si affretta a dichiarare…
Ancora nomi. La Sindrome Del Nome Ricorrente in realtà non è una malattia specifica – è un sintomo che capita agli scrittori per le ragioni più diverse.
Naturalmente tutto ciò avveniva prima che i manuali di scrittura prosperassero consigliando di evitare come la peste nomi troppo simili tra loro. Questa è una faccenda su cui tendo ad essere of two minds: da un lato voglio dar credito ai miei simili di saper distinguere fra due personaggi nonostante un’iniziale in comune – dall’altro… be’, non si sa mai, vero? E in linea generale, better be safe than sorry, e nel mio eterno lavoro in corso sulla caduta di Costantinopoli sto ancora cercando un nome per un ufficiale bizantino che non può più chiamarsi Alexios, essendo il coprotagonista veneziano nomato Alvise.
nella necessità documentata di avere due Thomas in scena, ha scelto la soluzione spudorata: ne ha aggiunto un terzo fittizio – in realtà Shakespeare sotto falso nome – ha affidato a Marlowe un commento infastidito in proposito (What, is all the world named Tom, these days?) e una sbrigativa suddivisione in Tom, Tam e Thomas. Non sono certa di trovare l’insieme convincentissimo, ma ammetto che era interamente necessario, visto che a teatro non si può nemmeno tornare indietro di qualche pagina per ricapitolare chi è chi.







