grillopensante · memories

Apprendistato

GrandmammaandJaneQuando si considera per bene tutto, è chiaro che a fare di me una scrittrice è stata, in primissimo luogo, mia nonna.

Mia nonna che, quando ero piccola piccola, non mi raccontava mai due volte una favola nello stesso modo: aggiungeva e modificava e ambientava nel nostro giardino, e nei boschi di pioppi lungo il fiume – e m’invitava a fare altrettanto.

Mia nonna che, all’epoca in cui cominciavo a voler fare “la commediografa”, alle matinées domenicali al Teatrino D’Arco, mi sussurrava che, un giorno, avrebbero rappresentato i miei lavori su quel palcoscenico.

Mia nonna che si divertiva a immaginare espressioni bizzarre ed errori di stampa messi in pratica alla lettera.

GrandmotherMia nonna che, in vacanza in montagna o al lago, ricamava storie sulle persone che incrociavamo. In albergo o sedute a un tavolino di caffé per l’aperitivo, in fila per la funivia o in platea prima che iniziasse un concerto, si guardava attorno senza parere, individuava un soggetto e poi… Questi qui vicino alla fioriera. Guarda com’è imbronciata la signora: cosa mai avrà combinato il marito? Oppure la famigliola straniera qui davanti: perché sono venuti in vacanza in Italia? O com’è che il signore con il cane bianco è sempre da solo e non scambia mai una parola con nessuno? Ed eravamo capaci di passare ore a immaginare vite, pensieri, piani, gusti, occupazioni e whatnot per gli sconosciuti che ci capitavano attorno – sulla base di una maglietta, di un’espressione, di un accento, di una postura, di un pezzettino di conversazione…

E allora non lo sapevo, naturalmente, ma era tutto esercizio, tutto apprendistato. Era una mentalità che assorbivo – quella di osservare, interpretare e raccontare. La mia meravigliosa nonna amava leggere e amava le storie in questo modo attivo – anche se non scriveva. Probabilmente è un gran peccato che non lo abbia mai fatto, perché aveva la forma mentis giusta, oltre a vaste quantità di grazia e immaginazione e flair narrativo, e un tocco di senso dell’assurdo… Però, non so quanto intenzionalmente, ha dato l’imprinting alla sua unica nipote – del che, come per infinite altre cose, non le sarò mai abbastanza grata. Di sicuro scrivo per merito suo – ma forse, in un certo senso, scrivo anche un po’ per conto suo?

E voi, o Lettori? Che primo apprendistato avete seguito, sulla via della scrittura, della lettura, della musica, di…?

scrittura · Utter Serendipity · Vitarelle e Rotelle

The Name Game

whatnameVi è mai capitato di faticare a dare un nome a un personaggio – e, in mancanza del nome giusto, di faticare a caratterizzarlo come si deve? O, on the other hand, di vedere un nome perfetto e di immaginarci attorno una storia? A me entrambe le cose, ripetutamente.

Forse vi ho già detto della mia ossessioncella per i nomi: sono di quelle persone che al cinema restano sedute durante i titoli di coda per amore delle liste di nomi, ho molto solidarizzato con il recente Dickens cinematografico che annota i nomi interessanti sul taccuino nel corso delle conversazioni, e l’ultima volta che sono stata a Londra mi hanno guardata malissimo perché, al Temple, fotografavo le liste degli avvocati accanto alle porte delle varie chambers… E questo è il motivo per cui, per un certo numero di anni, ho annotato diligentemente nomi presi dalla cartella spam. Sapete, quei messaggi che offrono… oh, non so, di tutto: dal metodo infallibile per guadagnare un milione di dollari in 72 ore, ai fitomedicinali canadesi; da un’eredità ricevuta in Africa, alle miracolose bacche dimagranti… appunto, di tutto. E, detto tra parentesi, già su quello ci sarebbe da riflettere: chi è la gente che si lascia ammaliare da queste cose? Soggetto per una storia, non c’è dubbio… ma non divaghiamo. I nomi, dicevo. Ebbene, qualche anno fa quelle mail arrivavano da mittenti fittizi provvisti di nome e cognome – e non dico che avrei battezzato i miei personaggi nelle acque limacciose dello spam, ma ammettiamolo: c’erano un sacco di nomi con cui giocare. E vi sto raccontando tutto ciò perché, mentre cercavo tutt’altro, mi è capitato in mano il quaderno con le liste in questione – e rivederle e volerci giocare è stato tutt’uno. Giocare a cosa? Well, per esempio, ad abbozzare un personaggio…

NamePNPatricia Nielsen, per esempio, è una ricercatrice universitaria, per la precisione un’entomologa (ugh!), con una passione per i viaggi avventurosi. Una di quelle persone che leggono Bruce Chatwin e portano i capelli raccolti a coda di cavallo. E anche una di quelle persone che si ritrovano coinvolte in misteri e ricerche in compagnia di improbabili estranei.

NameBDBarry Dean, invece, è stato un divo radiofonico negli Anni Cinquanta. Naturalmente è un nome d’arte, quello con cui ha interpretato il protagonista di una soap opera che teneva incollate alla radio milioni di casalinghe americane. In seguito ha tentato il teatro, ma non è andata molto bene. Il cinema… nemmeno a parlarne, perché vedete: Barry ha una voce d’oro, ma ha l’aria più incolore e ordinaria che si possa immaginare.

nameFSE Francis Staples? Oh, lui è un impiegato della East India Company a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. Viene da una vecchia famiglia di mercanti caduta in disgrazia, ed è molto impaziente delle sue circostanze. Essendo irrequieto e dotato di troppa immaginazione, credo proprio che s’inguaierà quando il Parlamento tenterà di arginare lo strapotere della Compagnia… Spionaggio commercial-politico nella City di Londra, per Francis.

Insomma, non si tratta di cercare ispirazione: solo di abituarsi a costruire circostanze, gente e trame. Oltre ad essere divertente, è un buon esercizio. E se poi, per caso si dovesse trovare anche qualche nome perfetto, tanto di guadagnato.

Intanto, giochiamo, o Lettori: chi è Sabina Merton?

scribblemania

Narrativa Lampo

Le linee guida di Glimmer Train impongono un limite massimo di 12000 parole per storia. Non c’è limite minimo – anche se raramente una storia al di sotto delle 500 parole suona completa.

Altrove le storie al di sotto delle 500 parole sono ricercate specificamente e fatte oggetto di appositi concorsi, sotto il nome di flashfiction. Il che non significa che a GT abbiano torto, anzi: la difficoltà sta, appunto, nel raccontare in maniera compiuta una storia in 500, 400, 200 o 100 parole*.

E’ difficile. Tanto difficile che la maggior parte di ciò che va sotto il nome di flashfiction non è costituita da storie, ma da bozzetti descrittivi, squarci di prosa poetica, fettine e altre cose sperimentali. Non storie. Le storie sono rare, col risultato che il genere è complessivamente noioso da leggere. Non so se esista davvero gente che legge per diletto l’altrui flashfiction, e non la sto consigliando come lettura.

Sto consigliando di scriverne, cavallo di tutt’altro colore: dover infilare tutti gli elementi di una storia – trama, personaggi, conflitto, atmosfera, descrizione – in poche centinaia di parole è un lavoro di cesello, perché obbliga a considerare il peso e la necessità non solo di ogni frase e concetto, ma di ogni singola parola. Che cosa è davvero essenziale? Che cosa può essere sottinteso? Come indurre il lettore a immaginare tutto quello che non c’è spazio per dire?

Favoloso esercizio che costringe a guardare da vicino la propria scrittura, ad analizzarla al microscopio – o meglio: con una lorgnette da gioielliere. Si possono fare sconcertanti scoperte sul proprio rapporto con gli aggettivi, per esempio. O sulla natura delle proprie costruzioni sintattiche, o sul proprio metodo di caratterizzazione. O sui propri inizi… oh, gli inizi!

Naturalmente, scrivere bozzetti descrittivi non vale. Bisogna sforzarsi di farne una storia, una storia, una storia. In 500 parole prima, poi in quattrocento e via amputando – magari di 50 in 50. Quand’è che smette di essere una storia? Qual’è il limite dell’irrinunciabilità? Che cosa segna il confine tra la potatura e la lobotomia?

Attenzione: il gioco genera assuefazione e dipendenza.

____________________________________________________________________

* Una volta ho partecipato a una cosa chiamata 60 Words Epics. Era un tantino estremo…