Era un’istituzione, il Professor Nosari, colonna del Liceo Ginnasio Virgilio per decenni.
Quanti Mantovani ha iniziato al Latino e al Greco, in quanti abbiamo letto sotto la sua tutela l’Eneide e i Promessi Sposi? Capita d’incrociarsi tra vecchi alunni… “Nosari anche tu?” E via a ricordare spiriti aspri e dolci, e dieci frasi dal Latino all’Italiano e altrettante viceversa, e la matita rossa e blu, e i lunghi elenchi di paradigmi greci, e il temutissimo sacchetto di tela verde con i numeri della tombola – ricordi di un’epoca delle rispettive vite in cui un 5 e la disapprovazione a labbra strette del Professore erano un’angoscia maiuscola.
Forse è un cliché chiamarlo uomo d’altri tempi – ma un cliché calzante e che, credo, gli sarebbe piaciuto. Due lauree in Lettere Classiche e Chimica, coltissimo e rigoroso, terziario francescano, dedito all’insegnamento in maniera quasi monastica, con quell’aria di disperare sempre un po’ di noi ginnasiali… faceva lezioni aggiuntive il pomeriggio per chi volesse, e metteva molta cura nell’ignorare la contemporaneità.
Il 10 di novembre del 1989 entrò in classe, segnò le assenze e si preparò a interrogare, come se nulla fosse. Una di noi, più audace degli altri, alzò la mano. “Professore, ha visto che è caduto il Muro di Berlino?” Lui la fulminò con lo sguardo da dietro le sue lenti fumé. “E allora?” chiese. “Io so le Guerre Puniche, e mi basta!” E riprese a interrogare.
Il Professor Nosari non voleva televisione nel suo appartamento stracolmo di libri – e io sospetto molto che la contemporaneità non gli piacesse. Che la trovasse cupa, plebea e bugiarda… E badate, forse scrollerebbe le spalle nel vedermi citare Rostand a suo proposito, perché il suo rifugio era l’antichità: il rigore della grammatica e della metrica (che si doleva di non insegnarci più a fondo), la prospettiva lunga e decantata della storia, la bellezza disciplinata della poesia – Esiodo più di tutti, con cui s’identificava…
E da quei due anni di tutela rigorosa si usciva ben formati nelle basi, e solo dopo, incontrandolo da vecchi alunni, si scopriva che il Professor Nosari era capace di sorridere. Quante volte va così: lo avevo temuto molto per due anni (ero una fanciullina impressionabile) e poi, a timori passati, mi scoprivo grata – e sì: anche affezionata.
Per anni e anni, dopo, col Professor Nosari ci siamo scambiati gli auguri di Natale e anche qualche lettera, e capitava d’incrociarsi in città. “Che cosa fa lei, adesso?” mi chiedeva – irremovibilmente passato a darmi del lei fuori dai banchi di scuola. Traduzioni, dicevo. E teatro. E poi scrivo. “Ah sì,” era il commento abituale. “Ha sempre avuto in testa la scrittura, lei. E i temi… non erano nemmeno male.”
Quando scrissi Di Uomini e Poeti, e fu rappresentato e pubblicato, gliene mandai una copia. Mi scrisse una lunga lettera fitta di citazioni latine – e, tra l’una e l’altra, lo si leggeva soddisfatto della sua vecchia alunna. Forse persino un po’ orgoglioso – e, a vent’anni dal Ginnasio, quella soddisfazione la vissi come una medaglia.
Chissà se c’è, nei Campi Elisi, un posto per i vecchi professori di Ginnasio… mi piace immaginare il Professor Nosari che si aggira sui prati con il suo impermeabile, la sua cartella e quell’aria sempre un poco corrucciata, in cerca di Virgilio o Esiodo per una buona chiacchierata in Latino.