Delizioso, esilarante flip-book, l’antenato dei cartoni animati, uno di quei libretti di cui si fanno scorrere velocemente le pagine per vedere le immagini in moto. 2100 pagine e 3 settimane di lavoro… Complimenti, Jamie Bell!
E buona domenica!
il Blog di Chiara Prezzavento
Delizioso, esilarante flip-book, l’antenato dei cartoni animati, uno di quei libretti di cui si fanno scorrere velocemente le pagine per vedere le immagini in moto. 2100 pagine e 3 settimane di lavoro… Complimenti, Jamie Bell!
E buona domenica!
Oh, cribbio! Quando i nostro hanno fatto il secondo goal, credevo proprio che ci si riuscisse ancora… Si direbbe che mi sbagliassi. Mi si dice che i nostri hanno giocato inqualificabilmente male per i tre quarti del tempo; mi si dice che forse quel goal che non si capiva bene se fosse entrato o no in realtà c’era, ma fa lo stesso*; mi si dice di starmene buona che non ne capisco niente, ed è proprio vero.
Sarà, però sono delusa. Voglio dire: se si fosse perso dopo avere giocato strabene contro qualcuno che giocava strameglio, allora sarebbe un’altra cosa. Cervantes ha un bel dire che la sconfitta è il blasone delle anime ben nate, ma avrei preferito che le anime ben nate in questione ci avessero messo un po’ più d’impegno, prima di prendere, incartare e portare a casa questo specifico blasone. Temo che stavolta nemmeno la mia inclinazione a simpatizzare con gli sconfitti funzionerà troppo.
Ci pensavo ieri, mentre guardavo la fine del primo tempo (durante il secondo c’era troppo movimento per strologare): come ogni specie vivente, siamo geneticamente programmati per tentare di prevalere, poi abbiamo elaborato, a bocconi e spizzichi, tutte queste sovrastrutture culturali che ci portano a idealizzare gli sconfitti.
Se volessi dimostrare la potenza di questo modo di pensare, partirei dal fatto che la Storia appartiene – per assioma – ai vincitori. Prendiamo un esempio a caso: Annibale. Non sopravvive nessuna fonte cartaginese, e quelle giunte fino a noi sono quasi tutte di parte romana. Nondimeno, l’immagine di Annibale che ci arriva, pur filtrata attraverso gli occhi dei suoi nemici, è quella di un grand’uomo. E non è solo questione del paio di millenni di distanza: non ricordo più dove ho letto che tra gli intellettuali Romani della generazione di Plinio il Giovane era un po’ una moda tenere un busto di Annibale in casa, una sorta di tributo cavalleresco ante litteram al grande nemico sconfitto.
Tutti ci commuoviamo sulle Termopili, su Masada e su El Alamein, tutti ammiriamo i Finlandesi sconfitti nella Guerra d’Inverno, i difensori di Costantinopoli e di Forte Alamo, i Polacchi repressi a turno da Austriaci, Russi e Tedeschi, tutti simpatizziamo con i Giacobiti e i Vandeani, tutti adoriamo Don Quixote e Cyrano di Bergerac, tutti troviamo che Napoleone, Riccardo III e Alessandro trovino la loro massima grandezza (o una forma di redenzione, a seconda dei punti di vista) nella sconfitta.
Millenni di etica della guerra e poi di Cristianesimo, più diversi secoli di letteratura, hanno modellato un’immagine di grandezza della sconfitta, una visione eroica che si estende poi anche allo sport. Vorrei ricordarmi meglio la storia di un atleta olimpico che, dopo avere battuto di misura un avversario che rispettava, fece tagliare in due la sua medaglia e ne inviò metà allo sconfitto. Come dire? In pratica, l’onore delle armi.
Quello che avrei voluto veder meritare dai nostri calciatori ieri pomeriggio, anche se non capisco nulla di calcio.
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* Sì, confesso che questa cosa non la capisco proprio: come può fare lo stesso se un pareggio avrebbe potuto tenerci in gara? Ich nicht verstehe.
Sono sempre persa nella revisione del mio romanzo turco-bizantino, talmente persa che non sto scrivendo un bottone per il Premio Stagionalia, cui pure vorrei partecipare…
Hm.
Però poi succedono piccole cose felici come questa: nella prima stesura avevo fatto del Genovese di Pera che in realtà è una spia al servizio del Sultano un mercante d’olio. Non so di preciso perché, l’avevo fatto e basta. E oggi m’imbatto in un dettaglio tecnico che non conoscevo: gli artiglieri ottomani, per evitare che i loro enormi cannoni di bronzo fuso si spaccassero, dopo ogni sparo coprivano la canna di panni intrisi di olio caldo. Di conseguenza, l’esercito assediante consumava quantità stravaganti di olio, e lo comprava tutto a Pera (con grande scandalo dei Veneziani e dei Greci della Città). Morale, il mio mercante di olio cum spia ha una ragione per andare e venire dal campo turco, si rivela essere del tutto plausibile e mi permette di mostrare più di un particolare d’epoca in una scena sola.
Piccole soddisfazioni. Ed è vero: non mi costerebbe niente, se fosse invece un mercante di stoffe, cambiarlo in mercante d’olio per la bisogna. Però, quando si sta revisionando, cambiando, spostando, tagliando, aggiungendo, lucidando e tutto quanto, inciampare in qualcosa che non solo può restare com’è, ma è persino meglio del previsto, è come un cioccolatino inatteso.
In teoria, la fedeltà alle fonti storiche è il primo articolo del mio credo di autrice. Voglio dire: in un mondo perfetto, il mestiere del romanziere storico consisterebbe nel ricreare quello che non sappiamo sulla base ed entro i limiti di ciò che sappiamo.
Il mondo non essendo perfetto, alle volte il confine tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo è un tantino confuso, e anche ciò che sappiamo non è poi così certo.
Il mondo non essendo perfetto, inoltre, i romanzieri storici hanno una certa tendenza a non razzolare tanto bene quanto predicano. O almeno io ce l’ho. Sia chiaro: faccio sempre del mio dannato meglio per non contraddire nessuna fonte certa, per attenermi ai fatti, per essere tanto precisa quanto posso con date, luoghi e persone…
E tuttavia, se esistono versioni differenti, fonti che riportano diversamente lo stesso avvenimento, la stessa battaglia, lo stesso personaggio? Non è colpa mia, giusto? E succede, sapete? Forse non avete idea di quanto spesso succeda… E che cosa può fare in questi casi una povera ragazza? *makes cocker spaniel eyes*
Be’, questa povera ragazza ha raggiunto un compromesso con se stessa e con la Storia: in caso di fonti non uniformi o contrastanti, sceglie sempre la versione che le fa più comodo dal punto di vista narrativo…
Sì, sì, questa ragazza sa perfettamente che esistono gerarchie delle fonti e criteri per stimarne, se non proprio stabilirne, l’affidabilità affidabilità, ma al tempo stesso, ringrazia spesso il Cielo che, per le sue vie e ragioni imperscrutabili, l’ha condotta a scrivere narrativa anziché saggistica.
Piccolo esempio illuminante: visitando il palazzo dell’Ajuntament a Barcellona, ci si ritrova a un certo punto nel Salò des Cròniques, dove nel 1929 Josep Maria Sert ha dipinto un ciclo di affreschi che narrano le vicende di Roger de Flor, cavaliere senza macchia e senza paura, che dopo aver generosamente salvato l’Impero Bizantino da qualche tipo di Turchi, viene ricompensato con l’inganno, il tradimento e l’omicidio. Che pessima gente sono questi Bizantini… Ebbene, più guardavo gli affreschi, più mi sembrava che ci fosse qualcosa di strano. Ero certa di avere ricordi in proposito: i nomi erano quelli, il secolo era quello, eppure la storia non quadrava. Poi, folgorazione! Ma certo, Roger de Flor, ex Templare, pirata e capitano della Compagnia Catalana, una delle più costose, pericolose e celebri compagnie mercenarie del XIII secolo! A sentire i bizantinisti anglosassoni (gente come Norwich e Runciman), il suo “generoso aiuto” veniva ad un prezzo astronomico, che comprendeva, tra molte altre cose, la mano di una principessa imperiale), e una volta respinti i Turchi, i Catalani si erano rivelati il classico rimedio peggiore del male, scatenandosi in saccheggi, incendi, stupri e distruzioni miste assortite in giro per l’Impero… E allora i Bizantini, che non andavano tanto per il sottile, avevano adottato la sperimentata tecnica tradimento-assassinio. Quando si dice a mali estremi… con quel che segue.
Insomma, due storie diametralmente opposte. A sentire Norwich, Roger era un pessimo soggetto; i Catalani hanno l’aria di pensarla diversamente. A Barcellona c’è una Calle Roger de Flor. Ci sono monumenti, hotel, istituti intitolati a lui. Ci sono siti web celebrativi… Una rapidissima ricerca su Google rivela almeno una trilogia di romanzi storici che ha Roger e i suoi Catalani, o Almogàvares, per eroi, ma non mi stupirei se ce ne fossero altri.
E tuttavia, se io volessi scrivere un romanzo i cui protagonisti ed eroi fossero gli Imperatori Paleologi, Andronico II e Michele, intenti a salvare il loro impero da quello stormo di cavallette, gli Almogàvares, capitanati dal crudele, esoso ed infingardo Roger? Il bello è che potrei! Anzi, non sono nemmeno certa che qualcuno non l’abbia già fatto – di sicuro le fonti lo consentirebbero senza eccessivi patemi d’animo.
La morale di tutto questo è varia. In primo luogo, un romanziere storico può fare pressoché di tutto anche conservando una coscienza decente; e questo è cosa buona e giusta per la letteratura, se non proprio per il fegato degli storici. In secondo luogo, ma in realtà questo è il punto fondamentale, non da oggi penso che la Storia abbia un quid d’inafferrabilità. I contemporanei la narrano con un’ottica deformata dalla loro posizione al suo interno; i posteri la interpretano da distanze cronologiche e culturali che non possono non essere deformanti a loro volta. Aggiungiamo a questo che i documenti vanno perduti, o sopravvivono in modo parziale, o vengono trascurati, e che il peso relativo dei fattori di valutazione cambia attraverso i secoli… E’ inevitabile: come dice Gianni Granzotto nel suo Annibale, “ci sono cose che non sapremo mai. Cose che non sappiamo più”.
E questo è forse uno degli aspetti più affascinanti della Storia. Per gli storici, sono vuoti da riempire cercando e ricercando, e per i romanzieri è un’iridescenza (o un’opacità, a seconda dei casi) da raccontare ancora e ancora, da ricreare, da immaginare. E non sempre nello stesso modo, anzi.
Alla fin fine, la forza vitale di tutte le cose risiede sempre in ciò che ancora non sappiamo.