Gli arcobaleni sono come il cioccolato e le Olimpiadi: c’è davvero qualcuno a cui non piacciono?
Chi di noi non ha, almeno una volta nella vita, puntato il dito ed esclamato in delizia e meraviglia per questo specifico fenomeno di rifrazione? Chi non ha ammirato i colori, cercando il punto in cui il verde diventa giallo? Chi non ha sorriso, e proposto per scherzo a qualcuno di andare a cercare la pentola d’oro ai piedi dell’arcobaleno?
Leggenda irlandese, questa, scivolata qui attraverso libri e film – una delle tante, in realtà. Non c’è civiltà, non c’è tradizione, non c’è corpus di miti che non abbia qualcosa da dire in proposito. Non che ci sia da sorprendersi: la relativa eccezionalità, la vivacità visiva, la forma – tutto cospira a fare dell’arcobaleno un simbolo perfetto, non vi pare?
E allora ecco Iride, messaggera divina nell’Iliade, e l’arcobaleno post-diluvio nella Genesi, e le masse di colori che annunciano a Gilgamesh quando gli dei sono d’accordo… Dopodiché, in aggiunta ai colori, c’è la forma: l’arcobaleno è l’arco del dio indù Indra, il ponte celeste degli dei creatori giapponesi, il Bifröst tra i mondi dell’universo nordico, la cintura di Tir, dio del sole e della conoscenza nel mito armeno, l’orlo del mantello del sole per gli indiani Cherokee, e tutta una varietà di serpenti per gli Aborigeni d’Australia, varie culture mesoamericane e gli antichi Estoni.
Va detto che, nelle sue incarnazioni serpentine, l’arcobaleno non è sempre particolarmente benevolo: inafferrabile e capriccioso, ha spesso a che fare con l’imprevedibilità e fondamentale indifferenza del ciclo delle stagioni.
Addirittura, sparse per l’Africa, l’Asia e l’America del Sud, ci sono popolazioni cui l’arcobaleno pare sì un portento – ma uno pessimo, oppure la livrea ingannevole di qualche demone mangiatore di bambini… In certe tribù amazzoniche, all’apparire di un arcobaleno, si nascondono i bambini e gli adulti chiudono la bocca – perché non si sa mai.
Quindi immagino che la risposta alla domanda nel primo paragrafo sia: sì, c’è davvero qualcuno a cui l’arcobaleno non piace…
Non granché in occidente, a dire il vero. Noi l’arcobaleno tendiamo a vederlo – se non più come un portento – come un segno d’incanto, oppure, at the very least, qualcosa di bello. Magari non stabile né duraturo… non ricordo quale signora Woolfiana (Mrs. Dalloway? Mrs. Ramsay?) paragoni la fugacità della vita umana al carattere effimero dell’arcobaleno, mentre Wordsworth ci vede il simbolo di un’intatta capacità di entusiasmo e meraviglia. Quando smetterò d’incantarmi alla vista di un arcobaleno, esclama in My Heart Leaps Up, sarà tempo di morire. John Masefield aggiunge all’elenco l’arcobaleno notturno – come una sorta di chimerica meraviglia, uno dei doni di una vita in mare. Anche Keats assimila l’iride al fascino, alla meraviglia e al mistero del creato – pur se solo per lamentare come la fredda scienza smonti tutto in un blando catalogo di ordinarietà…
Ma tutto sommato forse Keats si sarebbe potuto risparmiare qualche patema: non è certo di rifrazioni e di prismi e di luce scomposta che Dorothy medita quando cinguetta che Somewhere over the rainbow, il cielo è azzurro e i sogni si avverano. E lo stesso più o meno vale, seppure con una certa dose di sarcasmo, quando Oltretinozza dicono che “non è tutto unicorni e arcobaleni”, per indicare che le cose sono meno ideali di quando appaiano. Né è un caso che la bandiera arcobaleno venga spesso adottata come simbolo di pace e tolleranza e di cambiamento.
E davvero, chi di noi non ha la sua piccola mitologia personale in fatto di arcobaleni? Visti a dozzine prima di un esame risolutivo, o seguiti per gioco con qualcuno, o apparsi doppi a mo’ di ponte in circostanze particolari…
Nemmeno il più accanito detrattore può negare che l’arcobaleno, così vivido e inafferrabile, abbia sempre l’aria di dover significare qualcosa. E abbiamo millenni di miti, canzoni, storie, poesie, e istanti d’incanto a provarlo.
Non so come vada altrove, ma dalle mie parti oggi è l’ultimo giorno della Merla.
Qualche giorno fa, tuttavia, mentre aspettavo con altre persone in un luogo appropriatamente gelido e ventoso, si è venuti a discutere se una combinazione di gelo e sole nei giorni fatali fosse sufficiente per tenere la Merla al riparo. Qualcuno diceva di sì, sostenendo che è questione di temperatura; qualcuno dissentiva, nella convinzione che il cielo sereno potesse attirare la Merla allo scoperto… Yes, well – ma non è questo il punto. Il punto è che un anziano signore di un villaggio qui vicino ha raccontato una versione della storia piuttosto diversa, che funziona così: ai tempi in cui Berta filava e le merle erano bianche, Gennaio aveva soltanto ventotto giorni e un pessimo carattere. Un ventotto di di gennaio, la Merla che si sa incontrò il vecchio mese quasi finito. “Brutta bestia che non sei altro,” lo apostrofò, infreddolita e arcistufa. “Me ne hai fatto patire, in queste settimane, di gelo! Non ho mai sofferto tanto freddo in vita mia… ma per fortuna stanotte lasci il posto a tuo fratello, che ha un animo più gentile con le povere creature. Vattene, vattene, che tutti ti detestano! Son proprio contenta di vederti finire!” E volò via. Gennaio non disse nulla lì per lì, ma se la legò al dito. Andò dal suo fratello e successore e gli chiese in prestito tre giorni. “Che ne vuoi fare?” domandò Febbraio. Gennaio non gli disse che voleva far del suo gelido peggio e punire la Merla impertinente. “Devo concludere certe faccende,” rispose, più vago che poteva. “Tre giorni mi bastano di certo.” Febbraio tentennò un pochino. “Poi però me li ridai?” chiese – e Gennaio, gongolando, assicurò che certo, nemmeno a parlarne: l’anno dopo Febbraio avrebbe riavuto i suoi tre giorni. E Febbraio, da quell’ingenuo che era, accettò, perché gli pareva brutto dir di no a quel povero fratello un po’ cortino… Ebbene, Gennaio si prese i giorni e convocò tutti i venti di Tramontana, tutta la neve, tutto il gelo che sapeva. La Merla, sorpresa da tutto quel freddo inaspettato, non trovò riparo migliore di un camino… e il resto si sa – a parte il fatto che il povero Febbraio è ancora lì che aspetta di riavere i suoi tre giorni. 







