teatro

Sugli effetti del teatro

Ieri sera, dopo avere guardato in streaming il bellissimo Dieci Piccoli Indiani della Campogalliani, ero in quel felice stato di effervescenza in cui mi mette il buon teatro. Quel felice stato per cui mi pare che potrei rivedere subito lo spettacolo in questione. Quel felice stato per cui ho pagine di appunti da prendere in proposito. Quel felice stato per cui le idee – narrative e registiche – germogliano a frotte. Quel felice stato…

“Per cui prendi il volo e poi atterri bruscamente?” ha domandato P., vedendomi svolazzare con una pila di piatti e bicchieri in mano e la testa altrove. Continua a leggere “Sugli effetti del teatro”

elizabethana · Shakespeare · teatro

Esserci o Non Esserci

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonQuesto è il problema. Se sia meglio portare il fantasma in scena come uno spirito incarnato o suggerire la sua incorporeità per mezzo di luci blu, velari e macchina della nebbia – o magari non mostrarlo affatto. Spettro, apparizione, voce disincarnata, ossessione folle – e con un’idea registica dire che si è messo fine al dibattito sulla natura dell’ectoplasma vendicativo…

Perché il fatto è, vedete, che quando Shakespeare scrisse il suo Amleto, i fantasmi nell’Inghilterra riformata erano una vexata quaestio. Per i cattolici, naturalmente, erano anime del purgatorio, tornate a chiedere preghiere, esigere vendetta o sistemare faccenduole lasciate indietro. Ma la riforma aveva fatto piazza pulita di purgatorio, limbo e altre consimili sistemazioni provvisorie: una volta morti si ascendeva o si sprofondava in luoghi da cui nessuno tornava più.shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

Però i fantasmi c’erano – pochi dubitavano dell’esistenza di apparizioni spettrali. Il problema era come spiegarle… La risposta protestante era, come spesso accadeva, il diavolo. Non di fantasmi si trattava, ma di forme create illusoriamente (o abitate – su questo non c’era accordo) dal demonio al fine di sconvolgere le menti più impressionabili*, spingerle a compiere azioni riprovevoli come la vendetta e/o il suicidio e, già che ci si era, rastrellarne le anime.

Ma questi erano gli strologamenti dei teologi e dei re**, e l’opinione generale era che le anime dei morti tornassero indietro eccome. Magari non erano affatto raccomandabili, magari avevano davvero a che fare con il diavolo, ma erano propio fantasmi.

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonE la questione cessa di sembrare di lana caprina quando si guarda che cosa ne fa Shakespeare, portando in scena il fantasma di Amleto senior. Bernardo e Marcello, i primi a vederlo, non sanno bene che cosa pensarne ma, a ogni buon conto, chiamano e mandano avanti Orazio, perché Orazio sa il Latino e quindi è in grado di conversare con l’apparizione – e presumibilmente scacciarla, se necessario.

Orazio ha studiato a Wittemberg, e quindi arriva armato di accademico, filosofico e teologico disprezzo per tutto l’armamentario superstizioso medievale***. E infatti parte arringando lo spettro come se fosse un diavolo… E bisogna dire che allo spettro non piace molto essere perentoriamente invitato a parlare “per il cielo!”…

Questo potrebbe significare che si tratta in effetti di un diavolo cui non piace sentir nominare le cose superne, oppure che si tratta di un fantasma legittimo, offeso dal sospetto di Orazio. La faccenda rimane ambigua in una maniera che doveva essere accettabile per il Master of Revels e molto eccitante per un pubblico elisabettiano.

Diavolo? Fantasma? Fantasma? Diavolo?shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

La cosa buffa è che il filosofico Orazio si converte subito all’idea del fantasma, mentre Amleto, com’è nel suo stile, dubita. Ci saranno anche più cose in cielo e in terra che in tutta la filosofia di Orazio, ma perbacco, questa preoccupante apparizione vuole spingere il nostro tetro giovanotto a commettere peccato… diavolo o fantasma? Fantasma o diavolo?

E poi tutti sappiamo come va a finire.

Ora, la complessiva ambiguità dell’ectoplasma danese incarnava senza scioglierlo uno dei grandi dubbi dell’epoca, e l’Inglese medio si riconosceva nel rovello di Amleto: è o non è un fantasma? Defunto in cerca di giustizia (of sorts) o diavolo tentatore? È più indegno trascurare la volontà del trapassato o rischiare l’influenza diabolica? Eccetera, eccetera.

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonIn termini di pratica teatrale, la faccenda si traduceva in un attore in armatura che entrava in scena (da destra o da sinistra?), faceva le sue declamazioni con voce stentorea**** e poi si affrettava a cambiarsi per interpretare un’altra particina o due.

E così rimase per vari secoli, e ci volle il Novecento perché qualcuno cominciasse a porsi la questione in termini più registici che teologici.

Intanto, qualunque cosa l’apparizione fosse, bisognava in qualche modo segnalarne il carattere preternaturale. La voce da stentorea cominciò a farsi eterea ed echeggiante, la presenza scenica si sciolse in diluvii di nebbia, garze, tulli, luci blu, nebbia artificiale, ombre, proiezioni e – al cinema – trasparenze e doppie esposizioni.shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

Per esempio, nella versione olivieriana del 1948, il fantasma è un’armatura dalla celata semichiusa, avvolta in vortici di nebbia. Ricordo di avere visto, a Cardiff negli Anni Novanta, una produzione studentesca in cui il fantasma se ne stava dietro un canovaccio nero. Al momento giusto, un piazzato bianco illuminava l’attore, per dare l’impressione di un’immagine sfocata che emergesse dal buio. 

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonOra, non è che questo ingentilimento e questa rarefazione dello spettro avessero eliminato del tutto l’opzione diavolo-cadavere-animato/posseduto, che ricompariva periodicamente nella forma di fantasmi-scheletri o fantasmi-zombi. E tuttavia, la tendenza ebbe uno sviluppo logico in altre direzioni: lo spettro scomparve del tutto quando i registi cominciarono a ipotizzare che non fosse un fantasma affatto – ma un caso di possessione, una proiezione dell’inconscio di Amleto o un sintomo della sua follia.

Per esempio, a New York nel 1964, John Gielgud diresse Richard Burton in una produzione quasi ghost-less: al momento fatale, un’ombra indistinta si proiettava sullo scenario, e Burton/Amleto faceva conversazione con la voce del regista in quinta – una soluzione di cui Gielgud era particolarmente orgoglioso. Ma la storica del teatro Eleanor Prosser era meno entusiasta:

Tutti i versi erano squisitamente salmodiati nel tono tremulo di un santo morente – tutti tranne quelli troppo spudoratamente rivoltanti oppure osceni. Quelli – la descrizione dell’avvelenamento e l’immagine della lussuria che si pasce di letame – erano cassati. Ma in queste produzioni moderne, abbiamo mai modo di essere davvero spaventati o scossi da quel che il Fantasma dice, e da come lo dice?*****

E poi, nel 1980, Vincent Price interpretò a Londra un Amleto interamente senza fantasma. Le battute del defunto babbo le diceva lui, con una voce diversa

[U]n grugnito tipo teatro Noh, che suonava come un tritarifiuti shakespeariano,

ricorda l’attore e regista shakespeariano Paul Whitworth, prima di esprimere tutta una serie di dubbi: c’è il fatto che scegliere proprio Vincent Price per una faccenda di (forse) possessione sembrava singolarmente poco sottile; c’è il non del tutto trascurabile particolare che anche Bernardo, Francesco, Marcello e Orazio vedono il fantasma senza che Amleto sia nei paraggi; c’è la conseguenza che così Amleto, anziché scivolare gradualmente nei guai di una causa che si presenta con qualche merito di giustizia, appare fin dall’inizio matto da legare e matto da legare rimane fino alla fine.

E non so quali e quanti Amleti abbiate visto in vita vostra, ma sono certa che le apparizioni del fantasma variavano attraverso tutta la gamma – a riprova del fatto che, se gli Elisabettiani non avevano le idee chiare in fatto di spettri, non le abbiamo del tutto nemmeno noi. Anima in pena, diavolo, follia, inconscio represso? L’ambiguità deliberata di Shakespeare in proposito lascia spazio alle interpretazioni – anche quelle che non avrebbero avuto un senso definito a cavallo tra Cinque e Seicento.

La cosa importante è che il Fantasma non è una pittoresca particina secondaria, né un comodo device letterario. Nato come espressione di un dilemma che la riforma protestante si trascinava dietro come le catene di Marley, rimane un fulcro concettuale di tutto il dramma: la risposta registica alla domanda “che cosa è il Fantasma?” la dice lunga su chi è Amleto – e su chi siamo noi che ne interpretiamo la storia. 

È davvero calzante, non credete, che proprio questo fosse il ruolo in cui Shakespeare saliva in scena a incontrare il suo pubblico? Supponendo che sia vero, naturalmente… ma questa è, in tutta probabilità, un’altra storia.

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* Tra l’altro, un temperamento malinconico (leggi depressivo, in modern parlance) esponeva particolarmente a questo genere di attacchi. Amleto, per dire.

** Per dire, Giacomo VI e I era un appassionato (e bilioso) demonologo, ossessionato da streghe, diavoli e apparizioni, su cui scrisse abbondantemente – e si capisce che l’opinione di un re tendeva a fare testo. Poi viene da chiedersi se, quando era ancora solo VI, detestasse il conte di Bothwell perché lo riteneva uno stregone, o se dicesse che era uno stregone perché lo detestava…

*** Disprezzo molto elisabettiano e riformato, si capisce.

**** Leggenda e il solito Aubrey vogliono che Shakespeare recitasse il ruolo del fantasma – dal che i biografi deducono che non dovesse essere un attore straordinariamente bravo, ma possedesse polmoni di tutto rispetto.

***** Eleanor Prosser, Hamlet and Revenge, 1971. (Traduzione mia)

Storia&storie

Fuoco!

0395_light_my_fire.jpgCi sono cose che l’umanità comincia con l’adorare, poi ne fa un simbolo e come tale lo passa in letteratura – il che, a suo modo, è un’altra forma di adorazione più complessa.

Il fuoco appartiene alla categoria a pieno titolo.

Non c’è mitologia che non abbia la sua divinità del fuoco, dall’indù Agni, messaggero divino eternamente giovane che rinasce ogni mattina, all’irlandese Brigit, poetessa e signora delle fiamme alte, dal greco Efesto, protettore dei fabbri, al giapponese Kojin, che protegge i focolari e simboleggia la violenza degli elementi posta al servizio dell’umanità.

I significati simbolici associati al fuoco sono numerosi, positivi e negativi: rinnovamento, purificazione, immortalità, iniziazione, sacrificio, forgiatura, distruzione… basta pensare al mito della Fenice che brucia e rinasce dalle proprie ceneri, a Prometeo che ruba il fuoco agli dei per emancipare almeno un po’ l’umanità, alle fiamme che custodiscono il sonno della valkiria disobbediente, alla colonna di fuoco che guida Mosè e i suoi nell’Esodo, al fuoco inestinguibile di Vesta, alle fiamme della dannazione eterna.

Il fuoco è bello e pericoloso, benefico e distruttore, utile e terrificante: cosa potrebbe essere più adatto a rappresentare la divinità? E poi, essendo il poeta sempre un essere prometeico, il fuoco viene strappato all’esclusiva raffigurazione divina per diventare in letteratura un elemento simbolico della natura e delle azioni umane.

Frate Fuoco, secondo San Francesco, è “bello, et robustoso et forte”, ma qualche decennio più tardi “S’i fosse fuoco arderei l’mondo,” canta quel cattivo soggetto di Cecco Angiolieri, eleggendo le fiamme a segno della sua indole sfrenata. Più o meno negli stessi anni, Dante di fuoco ne sparge per tutto il suo visionario Aldilà: il fuoco del tormento che lambisce “ambo le piote” ai simoniaci, o le lingue di fuoco che avvolgono i consiglieri fraudolenti, le fiamme dei lussuriosi nel Purgatorio e il fuoco mistico e luminoso del Paradiso.

Ma oltre a queste connotazioni di contrappasso morale, il fuoco ne assume di più decorative e alphabet-light-writing.jpgdescrittive. Shakespeare, all’inizio dell’Enrico V, fa chiamare al suo prologo una Musa di Fuoco, necessaria a cantare gli eventi grandiosi e tragici che, o Spettatori, state per veder rappresentati. Il fuoco torna spesso in Shakespeare, con tutta la varietà possibile, dal fuoco pallido della luna al fuoco dell’amore – più difficile da spegnere di quanto non lo sia accendere il fuoco vero con la neve. Marlowe usa il fuoco in tutte le sue varietà simboliche e concrete nella maggior parte delle sue tragedie: i suoi personaggi seguono fuochi nel cielo, hanno temperamenti di fuoco e occhi fiammeggianti, muoiono di dolori che bruciano le viscere, incendiano città, palazzi e laghi (sì, laghi), invocano il fuoco alchemico, torturano e sono torturati con ferri incandescenti o vengono bolliti a morte, temono, minacciano e sperimentano le fiamme dell’inferno e portano molto fuoco in battaglia. Amore, peccato, fierezza, ambizione, sfida, orgoglio, bellezza, arte…

Tutto ben lontano dall’estasi febbrile di uno Schiller che, nell’Inno alla Gioia, decrive “noi” come “ebbri di fuoco”, dal fuoco che sussurra e mostra figure, unico e amatissimo compagno del fuochista che accoglie Nell e suo nonno nella dantesca fabbrica del Vecchio Negozio di Curiosità o, per restare con Dickens, dal fuoco che ruggisce allegro in ogni pagina di Canto di Natale. O ancora dal fuoco magico e benevolo in cui si manifesta il Dagda ne La Pietra del Vecchio Pescatore. Passione, gioia, ancora arte, entusiasmo, calore, sicurezza, protezione…

Ci sono metafore meno allegre e fuochi letterari più cupi. Ci sono incendi punitivi e vendicatori come quello appiccato dalla moglie pazza di Rochester in Jane Eyre, come le fiamme selvagge che distruggono il palazzo del tirannico Duca d’Ofena nelle Novelle della Pescara, o come l’ultima rivalsa della signora Danvers ne La Prima Moglie. Ci sono fuochi inquietanti, come quelli su cui si bruciano i libri (e occasionalmente i bibliofili) in Farhenheit 451. E ci sono le battaglie: l’incendio di Mosca in Guerra e Pace, le navi da battaglia in fiamme de Gli Androidi Sognano Pecore Elettriche, l’assalto alla prigione in Barnaby Rudge. Rabbia, furia incontrollata, vendetta, ferocia, distruzione, arroganza, guerra…

carols_hands.jpgCi sono anche fuochi in musica, come “l’orrendo foco di quella pira” (a tempo di valzerino), o l’autodafè e la “divina fiamma” del Don Carlos, o l’Uccello di Fuoco – che, incidentalmente, è anche una fiaba, la meta magico-mitica delle peregrinazioni di un principe piuttosto stupido. D’altra parte, anche nelle fiabe il fuoco non manca: avete presente, solo per citarne qualche caso, l’Acciarino Magico, il forno della strega di Hansel e Gretel, i fiammiferi della Piccola Fiammiferaia? Oppure, meno canonizzati ma onnipresenti, i fuochi fatui e le anime del purgatorio?

Insomma: religione, mito, fiabe, letteratura – non sembra esserci angolo del paesaggio interiore dell’umanità che resti immune al fascino pericoloso e fiammeggiante del fuoco. Non sarà più una divinità da tanti millenni – ma di sicuro il fuoco arde, ruggisce e illumina ben saldo nell’immaginario umano.

grillopensante

La Legge della Rosa e del Formaggio

RosecQuesto post è per T., che si scandalizza sempre un po’ quando parliamo di forma e di sostanza.

Allora, per inclinazione personale e per professione, ho la massima fiducia nel potere delle parole, e sono pienamente convinta che la forma sia sostanza. Sono persino pronta a dissentire dal Bardo in proposito: dite quel che volete, ma se la rosa si chiamasse polivinilcloruro? Magari profumerebbe allo stesso modo – ma saremmo così desiderosi di annusarla per accertarcene?

Sabato sono entrata in possesso di questo aneddoto: da bambino, A. non poteva nemmeno contemplare l’idea di avvicinarsi a quello che in casa sua si chiamava formaggio verde. Gli faceva proprio ribrezzo, e niente lo aveva mai indotto ad assaggiarlo. Poi un giorno – a casa d’altri, I assume – lo sentì chiamare gorgonzola. Oh, che bel nome quirky, rotondo e cremoso – un nome che, solo a sentirlo, faceva venire l’acquolina in bocca. Il piccolo A. assaggiò, apprezzò, e fu l’inizio di un amore culinario che dura ancora.

Il che sostiene la mia tesi: il formaggio era esattamente lo stesso – ma, sotto un altro nome, il piccolo A. non lo avrebbe mai assaggiato…

E sì, questa è un’idea che mi piace molto, e l’ho infilata anche in Shakespeare in Words – ma restano da considerare due particolari: da un lato, A. avrebbe potuto benissimo assaggiare il formaggio sulla forza del nome e detestarlo con tutte le sue forze; dall’altra, una volta che ci inducessimo ad annusarla, troveremmo la rosa/polivinilcloruro gradevolmente profumata – né più né meno che sotto l’altro nome. Magari, con un nome del genere, non la citeremmo troppo spesso in poesia – ma all’atto pratico e floricolturale le cose non cambierebbero granché, giusto?

CheeseAnni fa sentii una signora di cui non ricordo il nome propugnare appassionatamente l’idea di rinominare le biblioteche – nome freddo, polveroso e poco significativo – come Piazze del Sapere. A sentirla, sembrava che un cambiamento del genere dovesse contribuire a ripopolare le semideserte biblioteche italiane… Del che dubitavo allora e dubito anche adesso. Anche supponendo che,  per la Legge della Rosa e del Formaggio, qualcuno potesse essere indotto dal nuovo nome a varcare la soglia che prima aveva sempre evitato, poi all’interno avrebbe comunque trovato una biblioteca. Per i frequentatori abituali o per chi avesse sperimentato e mancato di apprezzare la biblioteca in precedenza, il nuovo nome non avrebbe significato granché…

Quindi sì, o T: la forma è sostanza – ma questo non vuol dire che possa prenderne il posto; Romeo con un altro nome avrebbe potuto al massimo fuggire con Giulietta e campare facendo… facendo cosa? Non ne ho idea*; e forse A. sarebbe giunto ugualmente al gorgonzola prima o poi e per altre vie. E tuttavia allo stesso modo, la sostanza non può fare a meno della forma. Diciamo la verità: lo mangeresti volentieri il Formaggio con la Muffa?

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* Non è che Romeo mi ispiri molta fiducia. Che avrebbe mai potuto/saputo fare, dovendo provvedere a una moglie e all’eventuale prole senza poter usare l’influenza della sua famiglia? Oh… è una storia quella che vedo davanti a me?

 

 

 

Poesia

Autunno Poetico

Gainsborough
Gainsborough

Questo post è per M.

Parlavasi di poesie d’autunno, stagione che ha sempre ispirato grandemente i poeti. Non dico che i prosatori non si siano mai dati da fare, perché foglie cadenti, giorni sempre più corti e quant’altro si prestano ad ogni genere di trattamento metaforico, simbolico o semplicemente decorativo, e pochi romanzi sono completi senza una buona scena autunnale, ma senza dubbio le citazioni che saltano alla mente per prime sono poetiche.

Prima di tutto, credo, Ungaretti, col suo Soldati: si sta come d’autunno sugli alberi le foglie…

Ma subito dopo la povera foglia frale dell’Imitazione di Leopardi, Settembre, andiamo, è tempo di migrare con I Pastori di D’Annunzio, San Martino di Carducci, con la sua nebbia che sale piovviginando agl’irti colli (e pensandoci, dev’esserci anche Alla Stazione Una Mattina d’Autunno, di cui confesso di ricordare solo la caduta di foglie), e la fredda estate dei morti di Pascoli, anche se  Novembre forse oggi è ancora un nonnulla prematura.

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Grimshaw

In qualche modo sarebbe stato innaturale che Gozzano non si occupasse di autunno, e infatti lo ha fatto più di una volta: per i vetri Autunno inonda la bella stanza delle luci estreme ne La Falce, Sire Autunno vuota munifico la sua cornucopia ne Il Frutteto, mentre La Signorina Felicita pensa i bei giorni di un autunno addietro, e l’elenco sarebbe lungo, se si volesse.

Fuori d’Italia, tutti ricordiamo i lunghi singhiozzi dei violini d’autunno di Verlaine forse più per il celebre messaggio in codice del D-Day che per la Chanson d’Automne in sé, e poi ci sono le gelide tenebre e i colpi funerei della legna spaccata nel Chant d’Automne di Baudelaire, e Mallarmé che chiama le nebbie sulle paludi livide – e in compenso Camus dice che l’autunno è una seconda primavera in cui ogni foglia è un fiore: lo so, è prosa, ma ci voleva proprio. Chi avrebbe mai pensato di dover ricorrere a Camus per allietare un po’ l’atmosfera?

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Arcimboldo

E poi veniamo al mondo anglosassone, cominciando con Emily Dickinson, che in Autumn indossa un gioiello per essere in tono con i vestiti scarlatti dei campi, le gaie sciarpe degli aceri e le guance rubiconde delle bacche – e con Stevenson e i suoi Fuochi d’Autunno, che fioriscono dopo l’estate a punteggiare il canto delle stagioni… Nei boschi gialli d’autunno, invece, Robert Frost esita al bivio in The Road not Taken. E anche l’autunno di Yeats, è giallo: giallo e triste come le foglie umide delle fragole selvatiche in The Falling of Leaves, mentre The Autumn di Elizabeth Barret Browning è una faccenda di vento nei boschi e torrenti gonfi. L’autunno di William Blake è un personaggio carico di frutti e dalla voce allegra che fa danzare le fanciulle, ma è macchiato del sangue dell’uva (To Autumn), e quello di Keats è un tempo di foschie, il caro amico del sole che fa maturare le mele sotto il cui peso si piega l’albero accanto al cottage. E poi (in ordine del tutto sparso) ci sono Shakespeare, che paragona gli alberi autunnali a cori in rovina, Nova Bair, con i suoi pioppi d’ottobre, torce accese per illuminare la via verso l’inverno, Kipling con le sue sere profumate di fumo e le notti profumate di pioggia, e John Donne che riconosce la bellezza alla primavera e all’estate, ma riserva la grazia all’autunno.

E infine rapido passaggio in Germania per Hoelderlin, e il suo autunno – simbolo del tempo che divora se stesso.

Passaggio e caducità, rosso, oro, crepuscolo, frutti, declino, vendemmia, nebbia, bellezza, malinconia, abbondanza e finalità: se c’è una stagione da poeti, forse è davvero l’autunno.

 

teatro

Gloriosamente Melodrammatici

RignoldHenryVAvere una riconosciuta ossessione per Marlowe, Shakespeare e tutto ciò che è elisabettian/teatrale significa, tra molte altre cose, che amici, parenti e conoscenze superficiali, quando inciampano in qualcosa di pertinente, lo fanno rotolare verso di me…

Come questo vecchio post su Atlas Obscura, con una collezioncella di quelli che l’articolista definisce “gloriosamente melodrammatici ritratti di attori shakespeariani ottocenteschi”, provenienti dalle favolose collezioni digitali LUNA della Folger Library*. Come questo qui a destra, che mostra George Rignold en Enrico V.

Erano ritratti pubblicitari, da mandare alla stampa e da distribuire autografati – e sì, sono alquanto melodrammatici – un po’ perché riflettono le convenzioni teatrali di un’altra epoca, e un po’ perché si suppone che rappresentino e concentrino in una singola immagine l’idea riconoscibile di un personaggio, o addirittura di un’intera opera. Quello che vediamo non è una scena specifica o un singolo momento, ma una specie di condensato di un’interpretazione: personalità e personaggio fusi e cristallizati come un moscerino nell’ambra.

Guardate per esempio Ellen Terry – che non ci lascia nessun dubbio su quale pericolosa signora scozzese stia interpretando, o l’Amleto armato e dubitante (To kill or not to kill…), o lo Iago infido, o la Giulietta sospirosa… Non so voi, ma io sono affascinata da questi cimeli di un’epoca in qui il realismo era l’ultima preoccupazione di attori e registi – e men che meno quando si trattava di Shakespeare, che si circondava sempre di un’aura particolarmente aulica. Ed è anche interessante osservare quali elementi, quali atteggiamenti ed espressioni l’attore e lo scenografo sceglievano per rendere immediatamente riconoscibile il loro soggetto.

Glorioso melodramma e marketing – back in the day.

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* Un altro di quei meravigliosi e-posti in cui si sa quando si entra e non quando si esce… Una grotta del tesoro, davvero. Fateci un salto.

grilloleggente · libri, libri e libri

Dieci Buoni Motivi Per Sterminare La Famiglia Del Vostro Protagonista

Un peu brutal? Può darsi, ma si direbbe che renderlo orfano sia uno dei migliori regali che si possano fare a un personaggio. Non è certo per caso che fiabe, miti e narrativa sono pieni di orfani e orfane. OrphansCind

Vediamo un po’…

I. Una storia, tanto per cominciare. Se la madre di Cenerentola non morisse, il padre di Cenerentola non finirebbe a risposarsi con la matrigna. E se poi non morisse anche lui, Cenerentola non finirebbe a fare la sguattera. E allora che ragione avrebbe la fata madrina di fare tutto il pandemonio che sappiamo per mandarla al ballo? E quand’anche C. fosse la stessa fanciulla colma di virtù pur non essendosi temprata nelle avversità, c’interesserebbe davvero di lei se, per andare al ballo, non dovesse far nulla di più faticoso che scegliere un vestito? Molti orfani letterari non avrebbero una storia affatto, se non fossero orfani.

II. Libertà d’azione. Un genitore è una quantità che è difficile ignorare in modo realistico, e d’altra parte avere due quantità non ignorabili e non strettamente connesse al conflitto principale può essere ingombrante. Avete mai badato al fatto che Renzo&Lucia hanno un genitore in due, invece dei regolamentari quattro? Oltretutto, la mancanza di genitori mette su strade inattese: qualcuno parte per salvare il mondo, altre s’impiegano come governanti a Thornfield o vengono portate a Francoforte, altri ancora si ritrovano a fare gli insegnanti e gli attori girovaghi, o emigrano in America, o s’imbarcano con i pirati.

Orphansyoung heathcliffIII. Passato Traumatico. La triste infanzia in un orfanotrofio e/o la traumatica morte di uno o più genitori vengono molto comodi per dare vulnerabilità a un protagonista o umanizzare un malvagio. Sospettiamo tutti che Heathcliff sia selvaggio di natura, ma il fatto di non avere mai conosciuto una famiglia ha avuto la sua parte.

IV. Motivazione. Tutti vogliamo amore, stabilità e sicurezza, grazie – ma un orfano è intitolato a volerne di più e con più determinazione. La frenesia con cui David Copperfield cerca figure sostitutive e famiglie surrogate sarebbe leggermente malsana se non fosse per la sua tragica infanzia. Il fatto poi che le figure sostitutive rivelino spesso piedi d’argilla e le famiglie surrogate franino una dopo l’altra… ah well – questo è puro Dickens.

V. Mistero. Non sempre è ben chiaro chi l’orfano sia. Talvolta non lo sa nemmeno lui. Talvolta non è poi orfano come tutti pensavamo – tutte ottime premesse. Hector Malot era specializzato in orfanelli a caccia delle proprie origini, ma anche il solito Dickens non scherzava: in Grandi Speranze Pip crede di sapere chi è, poi comincia a sospettare di essere qualcun altro, poi prende una serie di affascinanti cantonate in proposito, e poi alla fine… Ma no, non ve lo dico. Mi limiterò a dire che invece Estella non è poi così orfana come crede, il che ci porta a…OrphansDavie

VI. Rovesciamento e agnizione. Tutti gli orfani sono uguali? Non saprei: di certo alcuni sono meno orfani di altri, alla fin fine. Come Edipo che, credendosi orfano finisce con l’assassinare suo padre e sposare sua madre. Ops. O Luke Skywalker, che si ritrova figlio dell’Evil Overlord dal respiro difficoltoso, nientemeno*. E questi sono due casi di gente che, di suo, stava meglio orfana, ma ci sono anche agnizioni più felici, come Perdita che si scopre essere principessa anziché pastorella, come David Balfour che dopo tutto è un gentiluomo – o come Ernest/Jack/Ernest che, pur con qualche difficoltà, da trovatello si ritrova imparentato con quasi tutti gli altri**.

VII. Vendetta. Un sacco di gente nella letteratura di genere e all’opera ha genitori defunti da vendicare. Tipo il povero Don Carlos Vargas che, essendo un baritono, non gode mai di beneficio del dubbio, ma in realtà vuole vendicare suo padre. O tipo Amleto, che dubita a lungo, la prende molto alla larga e finisce con una strage parzialmente preterintenzionale. O come Harry Potter, che però alla fine matura e non si vendica. O forse sì? Be’, il finale non è chiarissimo, ma di sicuro Harry si è voluto vendicare per sette lunghi volumi.

OrphansLLFVIII. Istinti altrui. L’orfano può essere protagonista oppure no, ma l’incontro con questa creatura indifesa tende a scatenare istinti parental-protettivi in altri personaggi, che di conseguenza cambiano e maturano. La zia di Pollyanna si addolcisce, il nonno del Piccolo Lord Fauntleroy altrettanto, Alan Breck Stewart diventa fraterno e protettivo con David Balfour, Cimourdain si umanizza con il piccolo Gauvain, la dolce Rose Maylie diventa materna con Oliver Twist, Jean Valjean e Marius sono protettivi verso l’orfana Cosette*** e Dick Swiveller si redime parzialmente per amore della Marchesa. Dopodiché non tutti gl’istinti sono altrettanto commendevoli – e penso a tutta la gente che tenta di approfittare (e in molti casi approfitta) dell’indifeso candore di Little Nell, David Copperfield e Oliver Twist, o ai crudeli padroni degli spazzacamini in Angelo Nero e Die Schwaerzer Bruder.

IX. Avversità altamente formative. Questo viene in due varietà. L’adulto che l’orfanitudine ha reso tanto buono e/o tosto, come Esther Summerson**** e Richard Sharpe rispettivamente; oppure il fanciullo di buona disposizione che resta orfano e si tempra nelle avversità, come Sara Crewe, che da piccola sognatrice si prova principessa nell’animo, o come James Sands, che cresce inefficace ma generoso ed equanime. On the other Hand, c’è anche Becky Sharpe – l’orfana più abrasiva e opportunista della storia della letteratura…Orphansb

X. Conflitto a treni merci. Sì, lo so: questo non è veramente un decimo item, ma riassume i nove precedenti e tutto quel che ho lasciato fuori. Se partiamo dall’assioma che la narrativa è questione di gente nei guai, allora non si può negare che un orfano sia eminentemente narrativo, perché arriva dotato di un assortimento di guai garantiti. E sono tutti suoi perché, per definizione, non ha una mamma o un babbo che possano risolverglieli, privandolo del suo appeal.

E proprio questo è il migliore dei motivi per rendere orfano il nostro protagonista: il lettore si dispiacerà per lui, si appassionerà ai suoi casi, si commuoverà sulle sue sventure, desidererà invitarlo alla cena di Natale… Un metamotivo, se volete: il genere di ricatto emotivo che lo scrittore, quella creatura perfida e manipolatrice, ambisce ad esercitare su ciascuno di noi ingenui lettori.

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* Il quale, prequel docet, è a sua volta un tragico orfano e quindi ricade tecnicamente sotto il capo III. Considerando che Lei(l)a è allo stesso tempo più orfana e meno orfana di quanto creda, Guerre Stellari è uno di quei casi in cui non ci si fa mancare proprio nulla.

** “Lady Bracknell, se non sono indiscreto, vi dispiacerebbe dirmi chi sono?

*** D’altra parte Cosette è orfana di madre-un-tantino-indesiderabile-angelicata-in-morte, e quindi ricade in una categoria speciale del Capo II: gente che, restando orfana, si libera di connessioni discutibili. E Marius è orfano a sua volta.

**** In realtà Esther non è davvero così orfana, ma i suoi genitori sono un paio singolarmente melodrammatico. Tutto sommato, anche Esther sta meglio da orfana.

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Mettendo In Scena Marlowe – Atto I

KitMDa un lato, era un po’ che non si parlava di Marlowe qui attorno, e lo Spirito di Kit ha cominciato a darmi il tormento; dall’altro, mi è capitato di citare David Grimm su Scribblings, e allora mi son detta… perché non fare una rassegnina di drammi che hanno Kit per protagonista – o giù di lì?

Ed eccoci qui – e cominciamo col dire che, mentre i romanzi su Kit Marlowe si sono moltiplicati attorno al 1993, quarto centenario della sua morte, i drammi ispirati alla sua vita sembrano venire con torrentizia, ininterrotta irregolarità – hence il post in più parti. Da qualche tempo raccolgo e leggo tutti quelli su cui riesco a mettere le mani – il che non è sempre facile, e ha portato persino a un certo numero di contatti con gli autori, gente che varia dal disponibilissimo al leggermente paranoico…

Ma la cosa interessante è la varietà di trattamenti che Kit e la sua vicenda incontrano in mano ad autori diversi. E’ sempre istruttivo vedere come la stessa storia possa assumere colori diversissimi… Prendiamo tre esempi usciti nel corso di una decina d’anni.

School%20of%20Night%20Photo%201.jpgThe School of Night, di Peter Whelan (classe 1931) è uscito nel 1992: due atti in prosa che mescolano sogni premonitori, commedia dell’arte e intrighi politici in una magione di campagna. Il favore della Regina, spie in abbondanza, Walter Ralegh in disgrazia, una moglie gelosa, uno Shakespeare in incognito, accuse di ateismo, assassini prezzolati… Ricordo di avere letto una recensione secondo cui questo dramma non ha le idee chiare – parte teatro e parte dissertazione accademica. Si trattava, detto per inciso, di una recensione americana: le recensioni britanniche ne apprezzano lo spirito brillante, lo humour cinico e la caratterizzazione. Tendo a concordare con i recensori inglesi, con l’eccezione delle caratterizzazioni: Marlowe, spavaldo, diffidente e visionario, è disegnato con cura, ma gli altri personaggi diventano sempre più piatti e generici mano a mano che ci si allontana dal protagonista. Un’altro aspetto bizzarro sono le indicazioni di scena che suggeriscono pensieri, implicazioni e subtesto… È qualcosa che non si dovrebbe mai fare, ma si vede che Whelan può – e va detto che il risultato si legge quasi come un racconto. kitmarloweGrimm.jpg

Kit Marlowe, di David Grimm, è stato prodotto per la prima volta nel 2000, ed è tutta un’altra faccenda. È un drammone affascinate ed eccessivo in tutto: linguaggio, effetti, complicatissime note di scena, quantità di personaggi, omicidi in scena, oscenità, sangue a secchiate, scene madri, voli pindarici… E’ tutto gonfio e truce e rutilante, Marlowe va attorno in una frenesia di estremi – vitale e suicida, fiammeggiante e spaventato, assetato di conoscenza e ossessivo: un Tamerlano pieno di nevrosi. Sarebbe una lettura irritante, se non fosse tutto così marloviano e vivido! Non si può fare a meno di pensare che un nonnulla di misura, qualche taglio qua e là, qualche fioritura metaforica in meno e un uso più sottile dei simboli gioverebbero al risultato complessivo, ma a dire il vero, quale tragedia elisabettiana – e soprattutto quale tragedia di Marlowe era misurata, sobria e sottile? Grimm può avere peccato di zelo, ma di sicuro ha colto un certo spirito, abbastanza che persino il melodrammatico finale suoni, in qualche modo, quasi credibile.

938.jpgA Charles Marowitz, con Murdering Marlowe, del 2005, non è andata altrettanto bene. Probabilmente paga la scelta di riprodurre il verso sciolto di Marlowe – ciò che finisce col dare ai dialoghi più artificiosità che cadenza. Inoltre, Marowitz scarta le motivazioni consuete per l’omicidio di Marlowe e individua il movente in uno Shakespeare consumato dalla gelosia professionale… L’idea è originale, ma non è eseguita in modo terribilmente felice. Questo Shakespeare livoroso ha l’aria di arrivare alle misure drastiche un po’ troppo facilmente, e poco importa che non sia tanto lui a manovrare gli agenti del Governo quanto piuttosto viceversa. Marlowe, per contro, è un genio egocentrico della cui morte è difficile interessarsi, e tutti i personaggi, in generale, sono troppo occupati ad esprimere concetti astrusi in versi ancora più astrusi per catturare davvero l’attenzione – per non parlare della simpatia – del lettore. Cerebrale e macchinoso, alas, nonostante la premessa intrigante…

Insomma, c’è questa fondamentale difficoltà di catturare un periodo storico e una mentalità alquanto estranei, in cui la gente faceva ciò che faceva per motivazioni che, se non sono essenzialmente diverse dalle nostre (paura, avidità, ambizione…), sono però composte e strutturate in proporzioni quasi incomprensibili per un pubblico moderno. Ci sono poi personaggi a grandezza più che naturale, ci sono secoli di luoghi comuni e di leggende, c’è una rivoluzione letteraria di mezzo e c’è la necessità di rendere il tutto teatrale e interessante. Ogni autore ci prova a modo suo, ciascuno sacrifica qualcosa (verosimiglianza, aderenza storica, identificazione, comprensibilità…) – non tutti i drammi riescono col buco.

Come dicevasi più sopra, ne riparleremo.

 

grilloleggente

Dieci Personaggi Letterari Che Detesto

img274A volte vado fuori a cena con gente anche più squadrellata di me, si fa tardi chiacchierando e al dessert si fanno discorsi così. Chi sono i personaggi letterari che detestiamo? Quelli che proprio ci danno l’orticaria? Quelli con cui non vorremmo mai ritrovarci a condividere uno scompartimento in treno – let alone una vita intera? Ecco, questa è la mia lista.

1) Il Pio Enea. Lo so, l’ho già citato altrove, ma non posso farci nulla. Alla sola idea del Pio Enea mi va il latte alle ginocchia e poi si caglia. Questo abbandonatore seriale di mogli e regine, questo rapitore di fidanzate altrui, questo sopraffattore di nemici in combattimento sleale… e ci si aspetta anche che lo ammiriamo.

2) La Piccola Nelln in The Old Curiosity Shop. Non so immaginare che cosa avesse in mente Dickens quando l’ha scritta, questa statuina di zucchero. Eppure pare che all’epoca le folle fossero così ansiose di commuoversi sul fato dell’Angelica Orfanella! Ogni volta che penso alla folla che aspettava i transatlantici al porto di New York per sapere dai passeggeri se la Nell di Boz fosse morta, mi viene in mente Oscar Wilde: “Bisogna avere un cuore di pietra per leggere la morte di Nell senza ridere.”

3) Amelia Sedley, nella Fiera delle Vanità. Quanto bisogna essere stupidi per non accorgersi che George è un idiota fatuo, per credere pervicacemente che Becky sia una cara ragazza, per non vedere nemmeno il povero e devoto Dobbin? Che poi, ripensandoci, anche il povero e devoto Dobbin merita la sua parte di biasimo: quanto bisogna essere stupidi per innamorarsi di Amelia e restarlo per decadi?250px-Jenny_Dolfen_-_Frodo_Baggins

4) Frodo Baggins. Frodo parte innocuo, simpatico e leggermente buffo, da buono hobbit. Poi comincia ad assumere quel contegno nobile e sofferente e superiore e, ad essere del tutto sincera, da metà de Le Due Torri in poi sono pronta a buttarcelo io, giù da Monte Fato.

5) Il Piccolo Lord Fauntleroy. Oh, per amor del cielo! E’ davvero signorile, da parte del nonno, non affogare l’impiastro nello stagno delle carpe.

6) Antonio, l’eponimo Mercante di Venezia. Non è che Shylock sia una cara persona, ma Antonio che lo insulta e lo umilia, salvo supplicarlo di prestargli il denaro e di concedergli la proroga, per poi tornare agli insulti e alle umiliazioni nel momento in cui è fuori pericolo, è insopportabilmente peggio.

7) Pollyanna. Lei e il suo gioco della felicità. Lo so: si suppone che la trovi tenera, adorabile e un monumento all’ottimismo, ma credo che a questo punto si sia notato che possiedo un certo quale spirito di contrarietà. Più l’autore m’ingiunge di adorare un personaggio, più è facile che lo detesti.the_sorrows_of_young_werther

8) Il Giovane Werther. Sveglia, ragazzo, sveglia! Intanto che lui ci rimugina su, che bacia i bigliettini e si fa andare la sabbia fra i denti, che gioca con i fratellini, Lotte ha sposato un altro. E credete che lui si rimuova? Nemmeno per idea. Resta lì, rende infelice sé stesso e Lotte, e anche Albrecht, che non ha nessuna colpa. E per coronare il tutto, si suicida con la pistola di Albrecht, chiesta in prestito a Lotte. Bestiaccia meschina!

9) Antonina, nel Count Belisarius di Graves. Come, come, come può Belisario – non dico innamorarsi, ma restare innamorato per tutta la vita di questa donna volgare, intrigante e voltagabbana?

10) Pinocchio. Capisco che è di legno, ma solo io ho l’impressione che si butti con criminale allegria in tutte le situazioni stupide e pericolose che gli si parano davanti? Non sono mai riuscita a dispiacermi per Pinocchio, nemmeno da bambina.

Ecco qui. Mi si dice che dovrei detestare la gente malvagia, non le brave persone, non i protagonisiti eponimi, non le deliziose bambine e i valorosi eroi. Che posso farci? Si vede che, nella mia percezione tortuosa, ci sono crimini peggiori delle azioni malvagie propriamente dette. Magari, come diceva il mio maestro delle elementari, sono dura d’animo.

E voi, o Lettori? Che gente di carta detestate?

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Hodges nella Calza

HodgeShE bisogna dire che sia stata una brava bambina, perché nella calza della Befana (sort of) ho trovato una vecchia copia del bellissimo Shakespeare’s Theatre, di C.W. Hodges. E sarà anche un libro illustrato per fanciulli (vinse la Kate Greenaway Medal nel 1964), ma le meravigliose illustrazioni di Hodges non hanno età, trovo, e rimangono profondamente soddisfacenti. Sono proprio come ci immaginiamo l’epoca d’oro del teatro elisabettiano, o immaginiamo l’epoca d’oro del teatro elisabettiano così come facciamo per via di Hodges?

Vedute a volo d’uccello di città (Londra più di tutto, of course), teatri, cortili di locanda e piazze affollate, ricostruzioni di palcoscenici, folle stipate a guardare la scena, attori in prova, in viaggio o all’opera… Si comincia con una succinta storia del teatro dal Medio Evo al Seicento, e poi ci si concentra sull’epoca di Shakespeare: una meraviglia.

Hodges2La mia copia, venduta originariamente da French’s Theatre Bookshop quando era ancora a Covent Garden*, è stata stampata in Austria (chissà perché) per conto della Oxford University Press all’inizio degli anni Settanta. La sovraccoperta ha visto giorni migliori, qualche pagina ha delle pieghe in strane posizioni, e qualcuno ha sottolineato a matita due frasi: una ha a che fare con il carattere essenzialmente religioso all’origine del teatro, l’altra afferma una certa ineluttabile necessità del teatro fra le attività umane, in tutte le epoche e a tutte le latitudini – al di là di tutti i tentativi di soppressione o censura.

Una a pagina otto e una nell’ultima pagina, potrebbero essere due sottolineature fatte più o meno a caso e a titolo dimostrativo da un lettore non terribilmente attento – ma, prese insieme e alla luce di ciò che Hodges dice altrove sul teatro come laboratorio della coscienza umana, fanno quasi un ragionamento logico, nevvero?

Ah well, che devo dire? Sono molto, moto lieta di avere trovato Hodges nella calza.

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* Sadly, French’s non solo non è più a Covent Garden, ma non esiste proprio più, se non online. La primavera scorsa gli affitti troppo alti hanno fatto chiudere i battenti a quella che era LA libreria teatrale di Londra fin da metà Ottocento.