memories · musica · teatro

Fila I, Posto 9

DonC062E guarda un po’ la serendipità… accennavasi al Don Carlo di Rovigo, nel post di lunedì – e ieri sera, togliendo dalla mia lavagnetta di sughero un vecchio appunto che era lì da secoli senza nessun buon motivo particolare, che cosa ci ho trovato sotto, se non il biglietto del mio primo Don Carlo?

Sabato 10 novembre 2001, ore 20.30. Platea. Fila I, posto 9. Teatro Sociale di Rovigo… of all places. Ebbene sì. Nemmeno lo sapevo, che Rovigo avesse una stagione d’opera – ma ce l’ha. E nel 2001 comprendeva un Don Carlo – versione in quattro atti, in Italiano.

Vogliamo essere sinceri? Ero un pochino delusa. Erano anni che aspettavo di vedere un Don Carlo. Era la mia opera preferita, e non l’avevo mai vista in teatro – e il primo che mi capita a distanza ragionevole è… Rovigo? Ah well, che bisogna fare? Un Don Carlo è un Don Carlo, e sabato 10 novembre, con vasto anticipo – perché non si sa mai – si partì.

Il mio compagno di viaggio era il Mentore Operistico* – o forse è più esatto dire che io ero la sua compagna di viaggio. E guardate – io gli volevo un gran bene, ma il suo stile di guida e il mio stomaco avevano scarsa compatibilità. Nonostante un Valontan e quei braccialettini elastici che dovrebbero combattere la nausea, quando sbarcai a Rovigo ero al di là del bene e del male. Ma un Don Carlo è un Don Carlo: su la testa, spalle dritte e onwards! Chestnuts

E quindi immaginate la Clarina in abitino nero, scarpette col tacco e cappottino di cachemire, e immaginate anche una sera di tramontana…

“È tutto lì quel che hai addosso?” domandò scettico il Mentore, guardandomi rabbrividire. “Be’, se non altro l’aria fresca ti farà passare la nausea.”

Non posso negarlo: ero talmente occupata a battere i denti che la nausea non me la ricordavo nemmeno più. Era presto per il teatro e, una volta ritirati i biglietti, ci ritrovammo con un sacco di tempo per le mani. L’idea era quella di un bar calduccio, una tazza di tè e altri generi di conforto – ma all’improvviso…

“Ti piacciono le caldarroste?”

Col pensiero fisso al bar e al tè bollente, convinta che si trattasse di conversazione senza secondi fini, dissi che sì, mi piacevano molto…

“Ah, anche a me! Aspetta qui.” E io mi fermai dov’ero: a un angolo di strada, in mezzo alla corrente, e guardai il Mentore piombare su, of all things, un carrettino delle caldarroste, e tornarsene indietro con l’espressione di un bambino soddisfatto.

“Buona vigilia di San Martino,” mi disse, mettendomi in mano un cartoccio. “E buon primo Don Carlo! Dì se non è una cena originale.”

Come negarlo? Avete mai cenato a caldarroste a un angolo di strada, vestiti da sera, nel vento gelido di novembre? Scommetto di no. Be’, io invece l’ho fatto. A parte la difficoltà di sbucciare le caldarroste con i guanti, non vi fate idea di quanto sia pittoresco. E divertente. E dickensiano. E gelido. Quando finalmente entrammo nel bar calduccio e potei ordinare la mia tazza di tè era quasi tardi. O meglio, non lo era affatto, ma era quel genere di presto che bastava a mettere un po’ di ansia all’ansiosissimo Mentore.

Giuseppe_Verdi's_Don_Carlo_at_La_ScalaLui inalò il suo caffè e rimase a soffiarmi metaforicamente sul collo mentre mi ustionavo lingua, palato e gola con l’Earl Grey… Ma un Don Carlo è un Don Carlo, e quindi trottammo fino al teatro e prendemmo i nostri posti quando in platea non c’era ancora quasi nessuno, e aspettammo – la deliziosa attesa di una sala di teatro che si riempie, degli scampoli di musica che arrivano da dietro le quinte, dell’occasionale fremito del sipario, della lettura del programma…  L’avevo aspettata per mesi, quella sera, e finalmente c’eravamo.

Poi il buio in sala, l’orchestra che si accorda, il maestro che entra, gli applausi che si tacciono, il sipario che si apre… E Don Carlo fu!

E sapete cosa? Non fu nemmeno un granché. Decoroso, ma nulla di più. Forse il più modesto fra tutti quelli che ho visto in questi anni… E però fu il primo, e non lo dimenticherò mai – con la nausea andata-e-ritorno, e le caldarroste, e il gelo novembrino, e il coro con l’accento veneto, e il Grande Inquisitore con la zazzera… Che cosa non si ritrova alle volte in un pezzetto di cartoncino giallo appuntato su una lavagnetta di sughero, vero?

________________________________

* E, a dire il vero, Mentore in generale…

grilloleggente · libri, libri e libri · musica

Colonne Sonore

Un tempmusicaLargeo ascoltavo molta più musica. Nel senso di dieci, dodici, a volte anche quattordici ore al giorno. Mentre studiavo, mentre leggevo mentre scrivevo, mentre lavoravo… sempre musica. Anni fa, quando facevo tutt’altro lavoro, ero descritta nell’ambiente come “quella che in ufficio ha sempre la musica classica/l’opera”. E siccome procedevo per infatuazioni, ed ero capace di ascoltare e riascoltare lo stesso disco all’infinito, non era infrequente che finissi con l’associare un particolare pezzo a un libro, a un esame, a un progetto…

Così, per esempio, benché siano passati quasi trent’anni, non potrò mai sentire la IV Sinfonia di Brahms senza pensare al Deserto dei Tartari. L’Allegro non troppo e le travi scure della Fortezza Bastiani sono legati indissolubilmente per me. E la cosa buffa è che non mi ricordo nemmeno se nelle descrizioni di Buzzati la fortezza avesse davvero queste travi, ma è come la immaginavo ascoltando questa musica, e dubito che cambierò mai idea.

RambaudAltra associazione definitiva: le Five Variants of Dives and Lazarus di Vaughan Williams e le truppe napoleoniche accampate sull’isola di Lobau ne La Battaglia, di Patrick Rambaud. Mi si è fatto notare che non c’entra un bottone (e io protesto: non è del tutto vero), mi si è fatto notare che in anni successivi ho ascoltato le dannate Variants in ogni genere di altre circostanze, con o senza libri di mezzo… può darsi, ma quando violini&arpa attaccano il tema, io rivedo i fuochi da campo sull’isola.

Poi ci sono accostamenti seriamente dissennati, come la X Sinfonia di Mahler e l’Introduzione alla Sociologia Generale di Roucher (a cui andrebbe aggiunto anche il tè al bergamotto), oppure Dio che nell’alma infondere, dal Don Carlo di Verdi, e tonnellate di Economia Politica, o le Danze Ungheresi di Brahms e EC Law… l’ho già detto che ascoltavo musica mentre studiavo? Questi sono del tutto casuali, ma non per questo meno durevoli, visto che non sono svaniti in vent’anni e rotti, e sono solo alcuni di un numero notevole. E siccome non ho uno straccio di memoria visiva, ma ricordo perfettamente quello che studiavo o leggevo o facevo in corrispondenza di decine e decine di pezzi musicali, ne deduco che il mio cervello funzioni molto meglio con i suoni che con le immagini. Quando dovevo ricordare a memoria formule o elenchi, l’unico metodo veramente efficace era appiccicarli a un pezzetto di musica. Non c’è niente da ridere: è così che, dopo vent’anni abbondanti, mi ricordo ancora che nella quollah etiope si coltivano dura, mais, cotone e tabacco*. O almeno ci si coltivavano trent’anni fa**.musica8

Qualcun altro funziona nello stesso modo? Che cosa e come associate? E qualcuno che ragiona e ricorda per immagini?

_____________________________________________________

* Da  cantarsi sull’aria di “Maramao perché sei morto?” Don’t. Ask.

** Sì, lo so: una di quelle nozioni che non sai mai quando potranno servirti nella vita…

Storia&storie

Il Povero Filippo

FilippoTiziano.jpgHo i prodromi di una Crisi da Don Carlos. Un tempo erano crisi semestrali, e come tali si indicavano. Con gli anni si sono ridotte, ma non estinte. Le crisi arrivano quando ne hanno voglia, a intervalli irregolari e non necessariamente per un buon motivo, e si manifestano in ascolti, riletture, visioni, indagini, ricerche…

Magari una volta o l’altra ne parleremo – ma quel che volevo dire oggi è che non c’è nulla da fare: crisi dopo crisi, la mia simpatia va sempre al povero Filippo, el Rey Prudente.

Che posso dire? Trovo che sia uno di quei personaggi storici maltrattati più di quanto sia giusto dalla propaganda ostile, dalla letteratura e dalla posterità in genere.

Perché in fondo… state a sentire.

Filippo II era figlio di Carlo V e nipote di Giovanna la Pazza. Vogliamo chiamarla un’eredità famigliare un tantino ingombrante? Era anche il Re di Spagna, un uomo pio e coscienzioso alla sua maniera, un sovrano efficiente e un amante delle arti.

Era anche il pilastro dell’Inquisizione, il tormento delle Fiandre e l’uomo che tentò di dare una sonora lezione all’Inghilterra – quell’isoletta presuntuosa ed eretica.

Era anche un vedovo plurimo e il padre di Don Carlos – oltre che di altri sette tra figli e figlie, pochi dei quali raggiunsero l’età adulta.

Nel corso della sua vita ebbe modo di diventare una figura simbolo del cattolicesimo controriformista più feroce, e i suoi nemici (soprattutto quelli protestanti – ma non solo) crearono attorno a lui la cosiddetta Leyenda Negra, un raccapricciante catalogo di misfatti che includevano l’eliminazione di Don Carlos per motivi dinastici.

Il povero Carletto - nella versione idealizzata
Il povero Carletto – nella versione idealizzata

Il fatto che Carlos fosse uno psicopatico violento che maltrattava brutalmente i servitori e si divertiva a torturare a morte i cavalli non impedì ai detrattori di Filippo di dipingerlo come uno sfortunato giovinotto dalle buone intenzioni e dall’indole triste e ribelle, soppresso da un padre che temeva di essere detronizzato…

Libellisti fiamminghi e inglesi a parte, questa versione della storia cominciò a farsi strada assai presto in letteratura. Nei primi Anni Settanta del Seicento la troviamo nella Nouvelle Galante et Historique dell’Abate di Saint-Réal, secondo il quale Carlos, sventurato ragazzo, non solo è incompreso dal suo gelido e crudele padre, ma ha anche la sfortuna di innamorarsi della sua giovanissima matrigna, la francese Elisabetta di Valois.

La faccenda è ripresa pari pari pochi anni più tardi dal drammaturgo inglese Thomas Otway, che essendo un tragediografo secentesco, calca la mano sulla crudeltà omicida di Filippo, a tutto beneficio degli sfortunati e casti amanti.

Perché la costante è questa: Carlos e la bella regina si amano da lontano, sospirano, scambiano sguardi, ma non infrangono mai de facto i vincoli coniugali di lei. Di solito questo avviene più per l’animo elevato di Elisabetta che per il buon senso di Carlos, ma non sottilizziamo – e tanto più perché, al contrario, il gelosissimo e sospettosissimo Filippo tradisce la sua tenera consorte con la principessa di Eboli, bella e amorale quanto si può esserlo.

Più o meno è quello che succede anche nel Filippo di Alfieri che, come dice il titolo, si concentra sulla ferocia del tiranno: il padre snaturato elimina sistematicamente qualsiasi ombra di affetto o di amicizia attorno a Carlos, e gode nel farlo, non tanto perché veda nel figlio un rivale politico, ma per intrinseca malvagità. Il re di Alfieri è grandioso e tragico, ma del tutto privo di sfumature: non un personaggio vero e proprio, ma un simbolo della tirannide più bieca.

Bisogna aspettare Schiller perché al povero Filippo venga riconosciuta qualche ragione. Il Re in salsa romantica è duro per necessità, sacrifica ogni cosa alla Spagna, ma se stesso prima degli altri. Non ama suo figlio perché non ci riesce – non perché non voglia, ed è molto angosciato dalla scarsa affidabilità di Carletto come successore. In compenso si affeziona subito al giovane marchese di Posa (peccato non avere lui per figlio!), nonostante le perniciose idee quasi protestanti del ragazzo. Alla fine avrà il cuore spezzato in parti uguali dal possibile tradimento della regina e dal tradimento certo del marchese – ed entrambi per amore di Carletto!

DKNousétionsfrèresI librettisti di Verdi sono molto pronti a cogliere questo aspetto e al diavolo l’eponimia! Si può discutere su chi sia il vero protagonista di Schiller, ma nell’opera non c’è da dubitare: è Re Filippo a prendere il centro della scena. Duro, angosciato, paterno, incapace di farsi amare, risentito, costretto a soffocare ogni slancio del suo animo sotto i dettami della fede e della ragion di stato, Filippo è quello per cui dispiacersi. Quando si affanna perché la regina non ricambia il suo amore, quando il figlio di sangue lo sfida stupidamente a ogni passo, quando il figlio d’elezione lo inganna e tradisce, quando il Grande Inquisitore gli forza la mano, quando la vendetta inconsulta gli lascia l’amaro in bocca – è con il Re che la musica ci conduce a identificarci. Anche Verdi, come i suoi predecessori, calca sulla veneranda età di Filippo: in realtà il Re aveva trentadue anni quando prese in moglie la principessa di Francia, ma dipingergli un “crin bianco” aggiunge all’infelicità della giovane Elisabetta e, di rimbalzo, alla sua…

Per cui, avanti pure. Il Filippo di Schiller e di Verdi è ancora il tiranno della Leyenda Negra, ma è anche quello che si trova nelle vere sale del vero Escorial: quello che amava i pittori fiamminghi delle scene luminose e quotidiane, quello che si faceva preparare un salone dalle cui finestre potesse guardare il tramonto con i suoi figli, quello che riempiva i suoi palazzi di opere d’arte, quello che si appassionava ai problemi architettonici. E se, tra un ritratto tizianesco, un’orazione e un concio di pietra, ha fatto eliminare figlio e moglie… oh well, ci sussurrano tragediografo e compositore, sono particolari che ne fanno una figura ancor più tragica e possente.

 

Salva

libri, libri e libri · musica

Parole & Musica

MusicUn tempo ascoltavo molta più musica. Nel senso di dieci, dodici, anche quattordici ore al dì. Mentre leggevo, mentre studiavo, mentre scrivevo… sempre musica. E all’epoca in cui facevo tutt’altro lavoro, ero descritta nell’ambiente come “quella che in ufficio ha sempre la musica”. Poi, siccome procedevo per infatuazioni ed ero capace di ascoltare e riascoltare lo stesso disco all’infinito, era molto frequente che associassi un particolare brano a un libro, a un esame, a un progetto…48e902a9fb3d73425f4d6bad3733165b

La mia ur-associazione musical-letteraria: benché siano passati più di vent’anni, non potrò mai sentire la IV Sinfonia di Brahms senza pensare al Deserto dei Tartari. L’Allegro non troppo e le travi scure della Fortezza Bastiani per me sono legate indissolubilmente. E di fatto, non ricordo se nelle descrizioni di Buzzati ci fossero davvero delle travi di legno scuro, ma so di averle immaginate mentre leggevo e ascoltavo, e dubito molto che cambierò mai idea.

Cattura2Altro caso sono le Five Variant on Dives and Lazarus di Vaughan Williams e le truppe napoleoniche accampate sull’Isola di Lobau ne La Battaglia, di Patrick Rambaud. C’è chi mi ha fatto notare che non c’entra un bottone, e io protesto: non è del tutto vero. Mi si osserva anche che in anni successivi ho ascoltato le Variants in ogni genere di circostanze, con o senza libri di mezzo; questo è vero, ma non vuol dir nulla. Quando arpa&violini attaccano il tema, io non posso fare a meno di immaginare la sera umida e i fuochi da campo che si specchiano nell’acqua del Danubio.

Poi ci sono accostamenti seriamente dissennati, come la X Sinfonia di Mahler e l’Introduzione alla Sociologia Generale di Roucher*, o Dio che nell’alma infondere, dal Don Carlo di Verdi, e una tonnellata di Economia Politica. L’ho già detto che ascoltavo musica mentre studiavo? E questi sono solo un paio di casi, ma ne ho un’infinità. Ora, si dà il caso che non abbia uno straccio di memoria visiva, però ricordo perfettamente che cosa stavo leggendo, studiando o scrivendo in corrispondenza di centinaia di brani musicali. Se ne deduce che il mio cervello funzioni meglio con i suoni che con le immagini. Molte volte ho sfruttato la faccenda a fini pratici, appiccicando a un pezzo di musica formule o elenchi da imparare a memoria. Per esempio, è così che mi ricordo ancora che nella quollah etiope si coltivano dura, mais, cotone e tabacco**. O almeno ci si coltivavano vent’anni fa***.

Quindi, non uno straccio di memoria visiva – ma, per parafrasare Wilde, c’è poco che questa donna non riuscirebbe a fare, con la musica giusta… Qualcun altro che funziona così? E qualcuno che invece ragiona e ricorda per immagini?

______________________________________________________________________________________

* E qui andrebbe aggiunto, per completezza, il tè Earl Grey, quello al bergamotto.

** Da cantarsi sull’aria di “Maramao perché sei morto?” Dont. Ask.

*** Sì, lo so: una di quelle nozioni che non sai mai quando ti potranno servire nella vita…

Anno Verdiano

Librettitudini Verdiane: Don Carlos (II Parte)

Nell’episodio precedente…

DON CARLO
Si, t’amo, e Dio ci guidò,
Vivrò per te, per te morrò!

ELISABETTA
Se Dio ci guidò,
Se a me t’avvicinò,
I fè perchè ci vuol felici appieno.

Un giovane amore… spezzato sul nascere!

ELISABETTA
Tutto sparve…

DON CARLO
Sorte ingrata!

ELISABETTA
Al dolor son condannata!

DON CARLO ED ELISABETTA
Spariva il sogno d’or!
Svaniva dal mio cor!

Una grande amicizia…

DON CARLO E RODRIGO
Dio, che nell’alma infondere
Amor volesti e speme
Desio nel cure accendere
Tu dei di libertà.

Una donna gelosa…

EBOLI
(Fra sè)
Amor avria per me?…
Perchè lo cela a me?

Il dovere di una regina…

ELISABETTA
Perchè, perchè accusar il cor
d’indifferenza?
Capir dovreste questo nobil silenzio.
Il dover,
come un raggio al guardo mio brillò.
Guidata da quel raggio io moverò.
La speme pongo in Dio, nell’innocenza!

La terribile solitudine del potere…

FILIPPO
Del capo mio, che grava la corona,
L’angoscia apprendi e il duol!

E l’ombra minacciosa del destino…

FILIPPO
Ti guarda dal Grande Inquisitor!

Potere, amore, lealtà, amicizia, fiducia, gelosia, dovere…

Er. Sì, d’accordo è possibile che mi sia lasciata prendere un nonnulla la mano. Ve l’avevo detto che questa è la mia opera prediletta?

Ma riprendiamo là dove ci eravamo fermati, ovvero con il sipario che si apre sul…

Terzo Atto

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloSiamo tornati a Madrid, nei giardini della Regina a Palazzo Reale. In origine qui era il posto del balletto. Il Don Carlos, l’abbiamo detto, era nato per l’Opéra di Parigi, e tutto quel che si rappresentava all’Opéra comprendeva un balletto. Siccome in un modo o nell’altro bisognava cacciarlo nella trama, Verdi aveva immaginato che, durante una festa a corte, si danzasse la storia de La Peregrina, un’ enorme e celeberrima perla che Filippo II aveva l’abitudine di regalare alle sue mogli. A un certo punto, la Regina si annoiava e, scambiando maschera e domino con la Eboli, si ritirava di nascosto per andare a pregare. Er… sì.

Nelle rappresentazioni moderne il balletto non si vede pressoché mai, nemmeno nelle più filologiche delle versioni in cinque atti – il che non è gran motivo di disperazione, se lo chiedete a me. Se andate all’opera, vedrete l’atto iniziare con Don Carlo che vaga estatico per i giardini semibui, seguendo le vaghe indicazioni di un billet doux che ha ricevuto nel pomeriggio e, quando vede una figura di donna tra gli arbusti, le corre incontro apostrofandola nelle più tenere e inequivocabili maniere. giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Ed è qui che ci vien da dolerci che, insieme alle danze, si poti sempre anche lo scambio di maschere e mantelli che dicevamo… Perché va bene che l’amore è cieco e che a mezzanotte c’è buio, ma come fa il nostro eroe a non accorgersi che l’affettuosa mittente del biglietto, così preoccupata di metterlo in guardia al Rodrigo, neo-favorito del Re, non è la Regina ma la Eboli? A parte tutto, non nota nemmeno che all’improvviso si è messa a cantare da mezzo… Solo quando lei si leva il velo nota l’abbaglio e comincia a rimangiarsi tutti i teneri nonnulla che le ha sussurrato. Eboli non è stupida, e non tarda a fare due più due:

Quelle parole ardenti
Ad altra credeste rivolger illuso…
Qual balen! Qual mister!
Voi la Regina amate…! Voi…!

Si metterebbe male se, molto a proposito, non si precipitasse in scena Rodrigo, che dapprima cerca di far passare la tesi dell’infermità mentale (di Carlo), poi minaccia di sgozzare la furibonda Eboli sul campo, e poi ci ripensa e la lascia andare, perché ha un’altra e migliore idea. In un debole sussulto di buon senso, Carlo è tentato di diffidare delle buone idee di Rodrigo – che oltretutto è diventato il favorito del Re, ma il nostro Marchese è maestro nel ricatto morale: sgrana gli occhi, prende un’aria ferita e, con voce spezzata, vuol sapere se Carlo dubiti di lui… Figurarsi. Carlo, commosso e contrito, nega furiosamente e consegna a Rodrigo tutte le “carte importanti” che ha addosso. Il tema del giuramento d’amicizia risuona, e questa volta i suoi ottoni trionfanti hanno un che di vagamente minaccioso. Mentre i nostri due giovanotti si abbracciano ed escono in direzioni opposte, noi dubitiamo. Oh, se dubitiamo…

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa spostiamoci nella piazza di Nuestra Señora de Atocha. Sì, c’è il sole, ma non facciamoci ingannare dall’apparenza di festa: si festeggia l’incoronazione di Filippo, ma la si festeggia con un bell’auto da fè. Siete inorriditi? No, non intendo per gli eretici alla brace, ma per l’incoronazione – visto che nel 1568, anno in cui si suppone che l’opera sia ambientata, Filippo era già sul trono da dodici anni… E per una volta non è nemmeno colpa del pur storicamente vago Schiller: a Verdi pareva che a questa storia mancasse qualche grande scena di popolo, e allora aveva più o meno imposto l’incoronazione-cum-rogo. Che viene perfetta perché Carlo possa farsi notare, trascinando davanti al suo inflessibile padre una manciata di terrorizzati deputati delle Fiandre.

Ops…

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloFilippo, inutile dirlo, non è contento. Nonostante la crescente simpatia del popolo e della Regina, respinge con sdegno le suppliche dei Fiamminghi, e con qualcosa di simile al sarcasmo la richiesta di Carlo di essere nominato governatore del Brabante e della Fiandra. E onestamente, siamo seri: al suo posto avreste affidato a costui da governare anche soltanto un pollaio? Tanto più che Carletto procede a dimostrare la sua affidabilità sguainando la spada e servendosene per minacciare il Re… Comprensibilmente poco impressionato, Filippo ordina che si disarmi lo sciagurato – ma che succede? Le guardie esitano, i Grandi di Spagna esitano… Filippo va per fare da sé, e Carlo fa per alzare il ferro su suo padre, quando qualcuno si mette di mezzo. Indovinate chi?

O ciel! Tu, Rodrigo…!

trasecola sgomento Carlo. E noi sobbalziamo insieme al coro: Ei! Posa! Ebbene sì. Lo spargimento di sangue reale è evitato, Carlo è arrestato, Filippo è grato e padrone della situazione. Nel giro di due battute crea duca uno scombussolato Rodrigo e, fatti rimuovere Carlo e i suoi Fiamminghi, ordina di riprendere là dove ci si era interrotti: accensione delle pire, tetro coro del Sant’Uffizio ed eretici flambés – confortati da una Voce dal Cielo.

La fiamma s’alza dal rogo. Cala lo tela.

Atto Quarto

Eppure, sapete che vi dico? Non è detto che Filippo sia poi così monoliticamente giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlosicuro come ci era parso in piazza. Magari il dubbio ci era già venuto sentendolo duettare con Rodrigo, ma adesso lo scopriamo a vagare solo e insonne per i corridoi del palazzoIn una delle più meravigliose arie per basso di tutta la storia dell’opera lirica, Filippo ci apre il suo cuore. Lamenta la terribile solitudine del potere, il dubbio che non può fare a meno di nutrire per tutti coloro che lo circondano, la tristezza per l’incapacità della sua giovane moglie di amarlo… E qui potremmo aprire una parentesina per notare che, storicamente, Filippo, non era affatto un vegliardo canuto quando sposò Elisabetta, e aveva appena più di quarant’anni nel 1568. Ma il “crin bianco” era una tradizione consolidata, e non solo in Schiller: anche Alfieri, l’abate di Saint-Réal e tutti quanti ci dipingono il povero Filippo in età geriatrica, e tant’è. giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Ma torniamo a noi: a interrompere i magnifici rimuginamenti di Filippo arriva il Grande Inquisitore, terribile cieco nonagenario. Inizia qui un duetto veramente titanico. Con parole che, nell’originale francese*, sono quanto di più fedele a Schiller si trovi nel libretto, e con musica cupa e potente oltre ogni dire, questi due formidabili vecchi duellano incarnando potere temporale e potere religioso. Filippo non sa bene che fare di Carlo, e l’Inquisitore lo esorta allegramente a sbarazzarsene in modo drastico. Se Dio ha sacrificato suo figlio per il bene dell’umanità, perché non dovrebbe farlo il Re di Spagna? E Filippo acconsente, persino un po’ sollevato – ma non è finita. L’Inquisitore vuole un’altra testa, oltre a quella di Carlo: quel mezzo eretico e sovvertitore di equilibri, il signore di Posa, deve morire. E qui sì che Filippo insorge: se ha potuto condannare a morte con sufficiente equanimità il figlio di sangue, le cose cambiano quando si tratta del figlio del suo cuore – sentimenti, gli fa notare l’Inquisitore, del tutto inadatti a un sovrano. Di fronte alla minaccia di una frattura tra corona e Inquisizione, Filippo cede molto, molto a malincuore.

Dunque il trono
piegar dovrà sempre all’altare!

conclude amaramente, mentre l’Inquisitore si ritira.

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa ecco che irrompe Elisabetta, furiosa perché qualcuno ha osato rubarle un portagioie, e vuole giustizia dal Re. Ma si dà il caso che il portagioie ce l’abbia proprio Filippo, che lo apre e ci trova dentro una miniatura di Carlo – quella del I atto. Elisabetta si offende a morte per l’atto e per i sospetti ingiustificati, Filippo le dà dell’adultera, lei sviene, lui chiama aiuto e – come se non ci fosse nessun altro in tutto il palazzo – accorrono Rodrigo** e la Eboli. Segue quartetto in cui: a) Elisabetta si riprende; b) la Eboli annuncia di sentirsi in colpa; Filippo si pente di avere sospettato; Rodrigo decide che è il momento di agire. E gli altri capiamo dove sono, ma perché la Eboli si sente in colpa?

Non appena i due uomini si ritirano, la bella monocola si affretta a confessarlo a Elisabetta e a noi tutti: è stata lei a rubare il portagioie. E perché? Gelosia: amava Carlo e Carlo l’ha sprezzata. Elisabetta sarebbe anche pronta a perdonare, ma c’è un altro piccolo dettaglio: la Eboli è stata per anni l’amante del Re… 

Ecco, questo non si può perdonare. Elisabetta bandisce prontamente la Eboli – esilio o chiostro a sua scelta. Pentitissima e disperata per avere rovinato la reputazione della Regina, la principessa esce di scena con un’aria fiammeggiante e un’incoerente decisione di salvare Carlo. Voglio dire: come fa a sapere che il Re lo ha condannato a morte? La maggior parte dei registi risolve la questione facendole trovare il decreto di condanna sul tavolo di Filippo, mentre lamenta la vanità e l’orgoglio che le hanno fatto rovinare tutti quanti. 

Ma noi, intanto, andiamo a trovare Carlo nella sua prigione – in genere qualche tetro sotterraneo semibuio, dove lo troviamo seduto per terra in preda alla depressione più nera. E così lo trova anche Rodrigo, venuto a congedarsi da lui. Come a congedarsi? Eh sì, perché, con atto di dubbia saggezza, ha usato le carte che Carlo gli aveva dato nel III Atto per far ricadere su di sé tutti i sospetti: adesso è lui il fiero agitator delle Fiandre – e anche il supposto amante della Regina.***  giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Questo non scagiona affatto Elisabetta? Pazienza. E comunque nel portagioie della Regina c’era il ritratto di Carlo? Fa nulla. Ed è stato Carlo a portare i Fiamminghi all’auto da fè? Dettagli.

A suo credito, anche Carlo è sconcertato come lo siamo noi, e vuole andare dal Re a chiarire tutto… ma Rodrigo lo ferma. Flanders need you, gli intima…

No, ti serba alla Fiandra,
ti serba alla grand’opra.
Tu la dovrai compire. Un nuovo secol d’or
rinascer tu farai; regnare tu dovevi
ed io morir per te.

E non ci si lascia nemmeno il tempo di dubitare che Carletto sia in grado di compire alcunché – men che meno far rinascere secoli d’oro. Un colpo d’archibugio risuona, e…

Cielo! La morte! per chi mai?

esclama Carlo, atterrito.

Ecco, questo è il bit che cito sempre a sostegno della mia teoria-per-gioco sull’insufficienza cranica dei personaggi tenorili. Voglio dire: siete in due, lì dentro, e tu stai benone… per chi diamine vuoi che fosse?

E infatti…

Per me…

mormora utilmente Rodrigo, un istante prima di cadere tra le braccia di Carlo. E pur con un’archibugiata tra le costole, riesce a passare parola per un appuntamento con Elisabetta e a congedarsi con un’ultima e commovente aria, in cui supplica Carlo di non dimenticarsi di lui e di quel che ha fatto – e poi muore, e il pubblico è libero di commuoversi.

Ma il povero Carlo non è nemmeno libero di piangere in pace, perché arriva Filippo, a restituirgli la spada e liberarlo – perché ha creduto alle manovre di Rodrigo. E Carlo cosa fa? Per primissima cosa spiattella tutto a Filippo: altro che tradimento, altro che cospirazione, è morto per salvare me! Il che vanifica del tutto la morte del povero Rodrigo – e ok, era già condannato, ma lui non lo poteva sapere. Cosa dicevamo dei tenori? 

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa non distraiamoci, che il momento è pieno di pathos. Angoscia di Filippo, che in Schiller è lacerato tra l’incredulo dolore per il tradimento dell’uomo che considerava un figlio e il rimorso per averlo lasciato morire,**** e invece in Verdi si limita al rimorso – e qui arriviamo a quello che, a mio timido avviso, è l’aggiustamento più criminale tra i molti che segnano la storia di quest’opera. A questo punto, in origine, c’era una meravigliosa scena in cui Filippo e Carlo si addoloravano all’unisono, e il coro faceva corona (piuttosto seccato, a dire il vero). È un pezzo di una bellezza straordinaria – e fu tagliato prima della prima, perché l’opera era troppo lunga e i Parigini rischiavano di arrivare a casa troppo tardi.

Vi par possibile? Il balletto era sacro e intoccabile, ma la trenodia si poteva benissimo potare… No, in realtà c’erano altre ragioni – tipo il fatto che il pezzo era un po’ al di sopra delle possibilità del primo Carlo, il tenore Morère. E poi pare che il primo Rodrigo, Jean-Baptiste Faure, non fosse per nulla contento di restarsene sdraiato in scena mentre gli altri cantavano… Fatto sta che la trenodia fu tolta – e Verdi la riciclò anni più tardi per il Lacrymosa del Requiem. Però nowadays capita di sentirla qua e là in qualche produzione della versione in cinque atti – e secondo me il finale d’atto ne guadagna moltissimo.

Perché sì, siamo in finale d’atto, ormai: c’è spazio per una fulminea rivolta popolare, prontamente sedata dall’arrivo del Grande Inquisitore***** – ma non prima che la Eboli approfitti del trambusto per far fuggire Carlo – e poi il sipario cala. Le cose si mettono male per i nostri eroi, vero? Ma hanno tutto il tempo di peggiorare nel corso del…

Quinto Atto

Questo è breve. Elisabetta è a San Yuste. Aspetta Carlo e intanto fa conversazione con la tomba di Carlo V. Arriva Carlo, che si ferma a salutare sulla via della Fiandra. La morte di Rodrigo l’ha maturato: adesso ama Elisabetta solo di un purissimo e ideale amore, ma il suo cuore e il suo destino sono nelle Fiandre da liberare – cosa che Elisabetta ammira enormemente. Ma mentre si abbracciano per l’ultima volta, ecco arrivare Filippo, con l’Inquisitore e il Sant’Uffizio al seguito. E adesso va’ a spiegare a tutta questa gente che non è come sembra. Le guardie circondano Carlo, ma… che succede? Di chi è la voce che si sente echeggiare?

L’INQUISITORE
É la voce di Carlo!

CORO
É Carlo Quinto!

FILIPPO
(Spaventato)
Mio padre!

ELISABETTA
O ciel!

Il frate corifeo del second’atto ricompare – ma sotto il saio porta una corona imperiale. Tutti indietreggiano sconvolti, e il fantasma, in paio metafisico con la Voce dal Cielo, trascina via Don Carlo mentre, lentamente, cala la tela. 

E sì, è un finale dissennato, ma a Verdi piaceva tanto.

Nonostante il pio corruccio dell’Imperatrice Eugenia alla prima, e nonostante le perplessità di quei critici che tacciarono il compositore di wagnerismo, il Don Carlos fu un successo. In anni successivi cominciarono le modifiche, i tagli, gli aggiustamenti, le traduzioni e le ricuciture, e ancora oggi l’opera va in scena in una quantità di forme diverse, in due lingue e in un numero variabile di atti, cupa e scintillante, gonfia e raffinatissima, illogica e strappacuore – forse il più affascinante capolavoro della maturità verdiana. 

____________________________________

* La traduzione italiana, alas, è lardellata d’improbabilità come “L’infante è un gran ribelle, armossi contro il padre…” Sospirone.

** Abbiate pazienza, devo mettervi a parte di un minuto e meraviglioso particolare della regia parigina di Bondy: a questo punto, Filippo (José Van Dam) è inginocchiato sul pavimento accanto a Elisabetta (Karita Mattila) svenuta. La Eboli (Waltraud Mayer) soccorre la Regina, e Rodrigo (Thomas Hampson) offre la mano al Re per aiutarlo a rialzarsi. Filippo fa per accettare, ma poi si blocca, distoglie lo sguardo e si alza da solo – e noi capiamo che non riesce a stringere la mano dell’uomo che ha appena abbandonato all’Inquisizione. È una delle tante, acutissime minuzie di cui è ricco questo Don Carlos del Théâtre du Châtelet.

*** Secondo Bondy, molto schillerianamente, Carlo non crede più a Rodrigo – il che rende ancora più strappacuore tutta la scena.

**** Ma d’altra parte, in Schiller è Filippo a far archibugiare Rodrigo nelle segrete – cosa che l’Inquisitore poi gli rimprovererà come una mossa goffa e avventata. E non parliamo neppure del film muto del 1925, in cui Filippo spara di persona al povero Marchese…

***** Altra gemma bondiana a questo punto. Ne abbiamo già parlato qui.

 

Vitarelle e Rotelle

Tre Uomini In Barca – Per Tacer Del Grande Inquisitore

jerome.pngC’è una scena nel delizioso Tre Uomini In Barca Per Tacer Del Cane, di J.K. Jerome, in cui i tre protagonisti eponimi preparano le valigie per la loro vacanza in barca lungo il Tamigi. O meglio, il narratore J. osserva dubbioso mentre i suoi amici tentano di fare i bagagli. Naturalmente, i piani di ordine e metodo degenerano prima di subito, e la calma viene persa rapidamente. Ben presto, George e Harris sono intenti a scambiarsi insulti sopra una montagna di ceste vuote, barattoli di ananas, coperte e articoli da toeletta e – un istante prima che la situazione precipiti – J. si alza dalla poltrona e, senza una parola, va ad appoggiarsi alla mensola del camino, in posizione ideale per vedere meglio. “Per qualche motivo, questo li mandò fuori dai gangheri.”

Ora, non amo molto Gianni Rodari, ma gli sarò eternamente grata per avere sottolineato questa minuscola scena con una nota alla traduzione, rimarcando come quel singolo movimento sia un tratto di caratterizzazione degno di un grande regista – o, aggiungo io, di un grande scrittore. E’ una cosetta da nulla, ma di una tale finezza! Sembra di vederli: J. che si sposta e incrocia le braccia con quel genere di espressione da “io ve l’avevo detto”, ed è tutto quello che ci vuole per far esplodere gli altri due, perché tutti desideriamo sempre assassinare la persona che dice “io ve l’avevo detto”, specie se aveva ragione, e il fatto che le parole in questione non vengano mai pronunciate rende la scena ancora più perfetta. Harris scaraventa per terra gli stivali che ha in mano, George rompe in improperi e noi ci abbandoniamo a una crisi di ilarità. Perfetto.pd2785598.jpg

E non è solo una questione di tempi comici. Per restare in tema di regia, lasciatemi citare un minutissimo particolare della regia di Luc Bondy per il Don Carlos dello Chatelet. Il IV atto è finito, la rivolta popolare è domata, re Filippo e i Grandi di Spagna ringraziano il Cielo in ginocchio, Don Carlos è fuggito senza che nessuno se ne accorgesse, e il defunto Rodrigo giace sul pavimento con una palla di moschetto nella schiena. Questo è uno di quei casi in cui tutti si aspettano l’Inquisizione spagnola, e infatti ecco che il Grande Inquisitore (cieco nonagenario, che in questo caso cieco non è) si avvicina al cadavere, lo guarda con aria di feroce trionfo e, con la punta del bastone, gli scioglie le mani che Carlos gli aveva incrociato sul petto. Re Filippo vede e inorridisce, ma l’Inquisitore lo fissa duramente. Filippo si ferma e si nasconde il viso. La scena durerà forse dieci secondi e non ha legame apparente con i versi che il coro sta cantando al momento, ma è la conclusione perfetta del duetto tra il re e l’Inquisitore. “Dunque il trono ceder dovrà sempre all’altare?” si era chiesto allora Filippo. E la risposta arriva adesso: in questo caso, almeno, Altare 2, Trono O. E se non bastasse, questo piccolo gesto e il relativo scambio di sguardi sigillano perfettamente, da un punto di vista narrativo, il momento peggiore per i nostri eroi, appena prima del confronto finale con i malvagi.

Insomma, nello scrivere dialoghi varrebbe sempre la pena di inserire qualche gesto significativo. I gesti possono sottolineare le parole, possono contraddirle, possono creare tensione, dubbio, sottotesto, complessità, valore simbolico… Sì, ne vale decisamente la pena.

musica

Musica Cassata

Siccome oggi è il mio compleanno, volevo farmi un regalino e postare uno dei miei pezzi d’opera preferiti: il cosiddetto Lacrymosa dal IV Atto del Don Carlos di Verdi. Non lo si sente spesso, perché questa scena, in cui Filippo II si duole assai di avere fatto assassinare il Marchese di Posa, fu cassata prima della prima parigina del 1867, quando il Don Carlos era ancora grand opéra in cinque atti.

Alla prova generale, a quanto pare, ci si rese conto che l’opera era troppo lunga, e i Parigini avrebbero perso gli ultimi treni che portavano fuori città… Occorreva fare dei tagli. Non potendo eliminare il balletto, Verdi finì con l’eliminare, tra l’altro, proprio questa scena che, pur essendo straordinariamente bella, aveva dato più di un problema in fase di prove, principalmente perché il tenore non aveva abbastanza voce per svettare sul coro dei Grandi di Spagna, e poi perché a Jean-Baptiste Faure, il Marchese di Posa originale, non andava di restarsene sdraiato sul palco nel ruolo del cadavere mentre gli altri gli cantavano attorno.

La scena non venne mai ripristinata nelle versioni successive dell’opera, ma Verdi ne rielaborò poi la musica nel Requiem, donde il nome retroattivo di Lacrymosa applicato – un po’ liberamente, ma non a sproposito – anche alla scena cassata.

Nel 1996, al Théàtre du Chatelet di Parigi, Antonio Pappano ha diretto una versione in cinque atti e in francese, un po’ ibrida quanto a scelte musicali, ma comprendente il Lacrymosa. Questa produzione (se si eccettuano le scene indifferenti e qualche scelta di costumi) è stratosferica, con una schiera di fenomenali cantanti-attori, e la strepitosa regia di Luc Bondy, sobria, efficace e curatissima, piena di tensione e di idee. A mio avviso, una delle migliori versioni che si trovino in giro.

Ecco, questa era la mia intenzione, ma YouTube non collabora, e quindi mi sa tanto che il Lacrymosa dovrete andarlo a vedere qui.

Buona domenica!

 

musica · Oggi Tecnica · scrittura

Duetti & Subtesto

Facendo seguito a questo post, ecco qui il Capitolo XIX dei Promessi Sposi in tutta la sua gloria. Notate il crescendo di minacce velate – velatissime! – del Conte Zio, la quantità industriale di puntini di sospensione, il modo in cui le cose non dette, ma implicate, pesano quanto le parole vere e proprie. D’altra parte, notate gli a parte del Padre Provinciale, la sua consapevolezza amarognola, il suo fine sarcasmo qua e là (quel “Cospicue!”, e il commento finale sulla bontà della famiglia): tanto subtesto da costruirci un auditorium!

Eppoi, ecco Re Filippo e il Grande Inquisitore (cieco nonagenario), in altrettanto splendore. Francamente, Furlanetto/Salminnen non è la prima  distribuzione dei miei sogni, ma è comunque ottima, e la messa in scena molto buona. Per chi volesse fare confronti, di quest’altra versione con Ghiaurov e Raimondi c’è solo l’audio.

Qui c’è il libretto, che rispetto a Schiller condensa e semplifica assai (e infila qualcuna di quelle perle librettesche, tipo armossi contro il padre), ma combinato alla musica diventa pretty powerful stuff. Notate che per quanto riguarda Carletto, il Re cerca delle rassicurazioni morali e personali, mentre quando si arriva al Marchese si oppone nettamente su basi più sentimentali. In entrambi i casi, l’Inquisitore (c.n.) asfalta scrupoli e obiezioni con la logica corazzata e tetragona al dubbio di una panzerdivision. Notate anche qui l’uso della minaccia, il tentativo di riconciliazione finale di Filippo, il modo in cui il Re viene lasciato in sospeso (Forse!), e la sua amarissima conclusione. Notate tutto ciò in musica, perché qui il subtesto è per lo più affidato alle note. Meravigliose note…

IL CONTE Dl LERMA
Il Grande Inquisitor!

L’INQUISITORE
Son io dinanzi al Re…?

FILIPPO
Si; vi feci chiamar, mio padre!
In dubbio io son,
Carlo mi colma il cor
d’una tristezza amara.
L’infante è a me ribelle,
Armossi contro il padre.

L’INQUISITORE
Qual mezzo per punir scegli tu?

FILIPPO
Mezzo estremo.

L’INQUISITORE
Noto mi sial

FILIPPO
Che fugga… che la scure…

L’INQUISITORE
Ebbene?

FILIPPO
Se il figlio a morte invio,
M’assolve la tua mano?

L’INQUISITORE
La pace dell’impero i di val d’un ribelle,

FILIPPO
Posso il figlio immolar al mondo
io cristian?

L’INQUISITORE
Per riscattarci Iddio il suo sacrificò.

FILIPPO
Ma tu puoi dar vigor a legge si severa?

L’INQUISITORE
Ovunque avrà vigor,
se sul Calvario l’ebbe.

FILIPPO
La natura,
l’amor tacer potranno in me?

L’INQUISITORE
Tutto tacer dovrà per esaltar la fè.

FILIPPO
Stà ben.

L’INQUISITORE
Non vuol il Re su d’altro interrogarmi?

FILIPPO
No.

L’INQUISITORE
Allor son io che a voi parlerò, Sire.
Nell’ispano suol mai l’eresia dominò,
Ma v’ha chi vuol minar
l’edificio divin;
L’amico egli è del Re, il suo fedel compagno,
Il demon tentator che lo spinge a rovina.
Di Carlo il tradimento che giunse a t’irritar
In paragon del suo futile gioco appar.
Ed io, l’inquisitor,
io che levai sovente
Sopra orde vil di rei la mano mia possente,
Pei grandi di quaggiù, scordando la mia fè,
Tranquilli lascio andar un gran ribelle…
e il Re.

FILIPPO
Per traversare i di dolenti in cui viviamo
Nella mia Corte invan cercato
ho quel che bramo,
Un uomo! Un cor leale! Io lo trovai!

L’INQUISITORE
Perchè un uomo?
Perché allor il nome hai tu di Re,
Sire, se alcun v’ha pari a te?

FILIPPO
Non più, frate!

L’INQUISITORE
Le idee del novator in te son penetrate!
Infrangere tu vuoi con la tara debol man
Il santo giogo, esteso sovra l’orbe roman…!
Ritorna al tuo dover;
La Chiesa all’uom che spera,
A chi si pente,
Puote offrir la venia intera;
A te chiedo il signor di Posa.

FILIPPO
No, giammai!

L’INQUISITORE
O Re, se non foss’io con te nel reggio ostel
Oggi stesso, lo giuro a Dio,
Doman saresti presso il Grande Inquisitor
Al tribunal supremo.

FILIPPO
Frate!
troppo soffrii il tuo parlar crudel!

L’INQUISITORE
Perché evocar allor l’ombra di Samuel?
Dato ho finor due Regi
al regno tuo possente…!
L’opra di tanti di tu vuoi strugger, demente!
Perchè mi trovo io qui?
Che vuol il Re da me?

(Per uscire)

FILIPPO
Mio padre, che tra noi la pace alberghi ancor

L’INQUISITORE
La pace?

FILIPPO
Obliar tu dei quel ch’è passato.

L’INQUISITORE
Forse!

(Esce)

FILIPPO
(Solo)
Dunque il trono
piegar dovrà sempre all’altare!

grilloleggente

Promessi Sposi, Capitolo XIX

Oggi XIX capitolo dei Promessi Sposi alla UTE, ultimo per questo Anno Accademico.

Il Capitolo XIX è quello del match Conte Zio – Padre Provinciale dei Cappuccini, ed è una vera e propria gemma, di quelle cose che da sole valgono il prezzo del libro, di quei dialoghi che, per sottigliezza delle intenzioni, tridimensionalità della caratterizzazione e raffinata ironia, mutano momentaneamente ogni altro scrittore in un mostro dagli occhi verdi.

Cominciamo col dire che, quasi tre mesi e tredici capitoli fa, avevamo assistito a qualcosa di simile al palazzotto, tra Don Rodrigo e Fra Cristoforo, ovvero i due diretti interessati. E’ sempre di loro che si parla anche nel palazzo milanese dello zio: in pratica, lo stesso scontro elevato a potenza e condotto a un livello abissalmente diverso. Qualcosa come la differenza tra una rissa in piazza e l’alta politica.

Possiamo dimenticare (anzi, faremo bene a ricordare per amor del contrasto) il sarcasmo rabbioso, le insinuazioni grossolane e le minacce scoperte di Don Rodrigo, come pure la faticosissima umiltà e lo spirto guerrier di Fra Cristoforo. Qui siamo su un altro pianeta: dopo un pranzo di commensali titolati e un sacco di conversazione sulle aderenze della famiglia a Madrid, il Conte Zio fa professioni di amicizia verso l’Ordine Cappuccino in generale e il Padre Reverendissimo in particolare, finge di voler rendere un buon servigio, insinua che il padre Cristoforo debba essere un continuo grattacapo per i suoi stessi superiori…

Il Provinciale non ci casca, e difende la reputazione del suo sottoposto, ma vede addensarsi la tempesta… e non ha torto: per prima, il Conte Zio gioca la carta della sovversione, dipingendo il povero Renzo come un arruffapopoli della peggior specie, e il padre Cristoforo come un connivente. D’altra parte, con quel po’ po’ di precedenti che ha lui stesso…

Il Provinciale para di nuovo la botta: Sua Magnificenza deve pur sapere che a) l’Ordine ha per missione di recuperare i traviati, e b) la vocazione religiosa offre riscatto dal passato, del che Fra Cristoforo è la prova vivente. Il Conte Zio deve allora ricorrere al secondo argomento, rivelando (come se proprio ci si costringesse a malincuore) che tra il frate e Don Rodrigo c’è qualche ruggine. Nessun riferimento a Lucia, o anche solo alla natura della ruggine stessa, per carità. Lo zio, assai più scaltro del nipote, dipinge la faccenda come una questione di puntiglio, scusabile in un giovane nobiluomo scapestrato, ma del tutto fuori posto per un Cappuccino.

Il Provinciale resta sulle sue, avanza cauti dubbi, promette indagini, ma sa già dove vuole andare a parare il suo avversario. E infatti, puntualmente, il Conte Zio si scopre giusto quanto basta: indagini e dubbi? Ma perché mai il Reverendissimo Padre vuole andare a sollevare un vespaio? Perché non possono accomodare la questione tra loro due, senza che degeneri in zuffe, ritorsioni e scandali?

La minaccia è sottile, ma inequivocabile. E’ sicuro che l’Ordine saprebbe difendersi in un confronto, ma ne vale davvero la pena? Non è meglio per tutti tacitare il subbuglio cercando di salvare tutte le capre e tutti i cavoli possibili? Guarda caso, a Rimini vogliono un predicatore per la quaresima, e il padre Cristoforo è proprio quello che ci vuole. “Molto a proposito,” approva il Conte Zio. “E… quando?”

Il Provinciale prova a nicchiare, a prender tempo, a negoziare qualche forma di rispetto che Don Rodrigo paghi all’Ordine, per salvaguardare la dignità dell’abito… Il Conte Zio a questo punto potrebbe anche mostrarsi generoso, ma non lo fa: invece si limita a qualche promessa che più vaga non si potrebbe, e a cedere il passo alla porta. “Conosciamo per prova la bontà della famiglia,” replica amaramente il Padre Provinciale, di fronte all’ennesima promessa vuota di amicizia, di assistenza, di qualsiasi cosa…

Chiaramente, Conte Zio – Padre Provinciale è finita 2- 0.

Niente “verrà un giorno”, niente alterchi, niente vecchi servitori impauriti, niente cappa e spada: solo due canizie, due esperienze, dice Don Lisander, e la canizie laica ha vinto alla grande: con un pranzo e qualche parola, ha spedito Fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini.

Non posso fare a meno di accostare questo dialogo a qualcosa d’altro: il grandioso, corrusco, feroce duetto tra Re Filippo e il Grande Inquisitore (cieco nonagenario) del Don Carlo/Don Carlos di Verdi. L’atmosfera è tutt’altra, molto più cupa e più fatale, (e d’altronde in gioco non c’è il trasferimento di un frate, ma la vita e la morte di due uomini, nonché tutto un sistema di pensiero e il destino di un impero) ma la struttura è poi la stessa: potere temporale e potere religioso che si affrontano. Però nel caso di Verdi/Schiller è il Grande Inquisitore (c.n.) a spingere il suo avversario nell’angolo a implacabili colpi di logica e di dogma. Re Filippo resiste invano. Prima della fine si farà imporre la condanna a morte di non uno, ma due figli: quello di sangue e quello del cuore. “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!” conclude amarissimamente il Re.

A quanto pare, non sempre. O, almeno, non nel Seicento milanese di Manzoni, dove l’altare, per evitare guai, piega non di fronte al trono, ma a una corona comitale bene introdotta a Madrid.