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Traducendo Amanda

C’è Amanda Gorman, la giovanissima poetessa americana balzata alla celebrità leggendo i suoi versi all’inaugurazione del Presidente Biden. E c’è il suo lavoro, che adesso le case editrici di tutto il mondo si contendono, e che dovrebbe presto essere pubblicato in diciassette lingue.

Dico “dovrebbe”, perché adesso si pone il problema delle traduzioni.

Forse vi siete già imbattuti in questa faccenda, in giro per la Rete o al telegiornale… ma il fatto è che due traduttori europei sono stati fatti fuori – editorialmente parlando – a traduzione già finita. E non perché le traduzioni non andassero bene, anzi. Il punto è proprio che non importa quanto l’olandese Marieke Lucas Rijneveld e il catalano Victor Obiols siano bravi: entrambi sono bianchi, e quindi non possono essere adatti a tradurre i versi di una giovane attivista nera.

E chi lo dice? vi chiederete.

L’autrice stessa? Per nulla. La casa editrice americana Lumen aveva selezionato i traduttori, sottoponendoli all’approvazione di Amanda Gorman, che li aveva approvati tutti e diciassette. Non solo non aveva sollevato la minima obiezione, ma era soddisfatta delle scelte.

E poi…

E poi in Olanda Janice Deul, che ho visto descritta come “attivista online” e come “lifestyle writer” ha contestato la scelta di Marieke Rijneveld: per tradurre il lavoro di Amanda Gorman ci vuole una giovane donna orgogliosamente nera, un’attivista politica, qualcuno che abbia esperienza diretta della situazione dell’autrice. Nessuno di bianco potrà mai farlo. Che ne può sapere?

E badate che la Deul non ha letto una riga della traduzione. Non sa se sia ben fatta o no, se Marieke Rijneveld abbia colto lo spirito di The Hill We Climb o meno… Ma d’altra parte non le importa minimamente. La qualità letteraria è l’ultimo dei fattori in gioco qui.

Inutile dire che la faccenda incendia la rete, e le polemiche divampano, al punto che Marieke Rijneveld decide di ritirarsi in buon ordine, sostenendo di avere messo ogni impegno letterario e umano nella traduzione, e di provare sconcerto per la baraonda – ma di comprendere il punto di vista dei contestatori. Insomma, non è una collina su cui si voglia arrampicare – e si può capire. Intanto, per parte sua, l’editore olandese Meulenhoff cerca di parare il colpo promettendo di imparare da questa vicenda, di cercare un team che possa trasmettere il messaggio nello spirito di Amanda…

Fine? Ma niente affatto.

Passa qualche settimana e il titolatissimo traduttore catalano Victor Obiols, che ha già consegnato la sua traduzione, si sente dire dalla casa editrice Univers che grazie, fa lo stesso. La sua traduzione è ottima – ma dopo tutto dall’America cercano qualcuno con un profilo più simile a quello dell’autrice…

Un profilo più simile. Ed è indubbio che Obiols sia un uomo bianco sulla sessantina – ma è questo il punto?

Il punto non dovrebbe stare piuttosto nell’abilità di Obiols e Rijneveld, nell’intelligenza, nella sensibilità, nell’esperienza, nella capacità mimetica di calarsi in un’altra mente e restituirne il lavoro in una lingua diversa?

A sentire Janice Deul e i suoi seguaci, no. A sentir loro, per tradurre serve prima di tutto una legittimazione politica. Una legittimazione (dare we say it) razziale. Ma allora è così frammentata e frammentaria l’arte? È suddivisa in compartimenti così stagni? È così limitata la forza delle parole che un poeta può parlare a chi è “diverso” soltanto tramite un intermediario di profilo affine?

Se imbocchiamo questa strada, però, nessun uomo può tradurre una donna – e viceversa. Che ne saprebbe? Nessun contemporaneo può tradurre un autore dei secoli passati. Che ne può sapere? E di più: solo chi sia stato in campo di prigionia può tradurre Solgenitsin. Solo una zitella di campagna può tradurre le sorelle Brontë o Jane Austen. Solo un marinaio espatriato può tradurre Conrad…

E badate, la faccenda non è nuovissima. Da decenni ormai esiste lo spettro dell’appropriazione culturale, agitato da chi si straccia le vesti all’idea che un uomo scriva personaggi femminili e viceversa, che un’autrice senza figli racconti di maternità, che chiunque si azzardi a scrivere un personaggio di una cultura non sua.  E di nuovo, nulla a che vedere con la qualità dei ritratti, delle storie, della scrittura: solo una patente di political correctness.

Adesso il problema si ripresenta – esteso alla traduzione.

Una china pericolosa, non vi pare?

Ed è vero che in un secondo momento Janice Deul ha concesso, bontà sua, di non rifiutare in assoluto l’idea che un bianco possa tradurre una persona di colore e viceversa… Apparentemente solo Amanda Gorman, qui e adesso, ha bisogno di una traduttrice gemella. Il che non mi sembra un enorme complimento nei confronti della Gorman – ma comunque ormai è troppo tardi: il vaso di Pandora è aperto, e ne sono uscite questioni che a questo punto non si possono ignorare.

Accettare il principio secondo cui solo chi mi è uguale per età, per genere, per esperienza, per colore della pelle può davvero capirmi e farmi capire ad altri, significa sminuire me, gli altri, il traduttore, la mia arte e la mia funzione, e quelle del traduttore. Sminuire, circoscrivere, indebolire, ghettizzare.

Che fine fanno l’universalità dell’arte e l’immaginazione umana? La capacità dell’artista di immedesimarsi, di estrapolare? L’arte come strumento di conoscenza, come mezzo di comprensione reciproca? E sì, parlo tanto della scrittura quanto della traduzione, perché la traduzione è un’arte.

L’arte di indagare un’altra cultura, un’altra mentalità, altre circostanze, e renderle nei termini di una lingua che funziona secondo parametri diversi, che ha alle spalle un diverso pensiero, una diversa storia e una diversa forma mentis.

Il traduttore fa da cerniera fra due mondi. Vogliamo davvero sostenere che per farlo gli serva, prima di tutto e a parte tutto il resto, una legittimità politica?

 

 

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