Questa faccenda va girando di blog in blog quasi come un meme – ovvero quella cosa che vado ripetendo di non fare e poi invece ci ricasco sempre.
Ma il fatto è che, quando si comincia a parlare di maestri ideali, scrittori sulle cui opere ci siamo formati… come può una ragazza resistere?
A dire il vero, Ferruccio Gianola ha cominciato parlando di scrittori preferiti, ma poi Alex Girola e Davide Mana hanno aggiunto alla faccenda questo taglio vagamente jedi, e allora eccoci qui.
E siccome vedo che a numeri funziona alla ciascuno-per-sé, qui andiamo per sette, in un ordine vagamente cronologico – non tanto di lettura, quanto di consapevole apprenticeship.
I. G. B. Shaw. Perché quando avevo dodici anni e mi chiedevano “che cosa vuoi fare da grande?” io rispondevo “la commediografa”. E rispondevo così solo perché allora studiavo francese e non sapevo che esistesse la parola playwright, che mi piace tanto di più – ma non divaghiamo. Volevo tanto, ma in quella maniera informe, you know. Non era che non ci provassi, ma non avevo troppo idea. Poi, nell’estate dei miei quattordici anni, entra in scena Shaw, nella forma delle Quattro Commedie Gradevoli, edizione Anni Sessanta, BUR con la copertina rigida – di mia madre. Folgorazione. In particolare Cesare e Cleopatra e L’Uomo del Destino. Teatro a sfondo storico – proprio quello che volevo fare. E la costruzione dei dialoghi, e l’uso delle fonti, e il tratteggio dell’ambientazione storica, e il funzionamento teatrale…
II. Joseph Conrad. In un sacco di modi. La profondità cui si poteva spingere l’indagine psicologica. Le possibilità infinite dei punti di vista. La possibilità di raccontare una storia attraverso l’accumulo di prospettive. La cesellatura di un personaggio centrale. I dubbi e le domande senza risposta. L’intensità. E poi l’uso della lingua – e di una lingua appresa. È in buona parte per via di Conrad che scrivo in Inglese.
III. Patrick Rambaud. Rambaud non se lo ricorda più nessuno, credo. A un certo punto ha letto nella corrispondenza di Stendhal di un romanzo mai scritto. Allora ha preso l’ambientazione (una battaglia napoleonica), ha preso Stendhal in persona, ha preso una manciata di personaggi storici e ne ha cavato un bel romanzo. Nulla d’immortale, solo una buona storia ben raccontata, fedele alle fonti e romanzesca quanto bastava. All’epoca in cui mi trastullavo con l’idea di scrivere romanzi storici ed ero paralizzata dall’incertezza dei confini tra fonti e immaginazione, Monsieur Rambaud è stato piuttosto fondamentale.
IV. R. L. Stevenson. Ah, i narratori di Stevenson, inaffidabili anche quando sembra che non lo siano, sottilmente minati nella loro attendibilità, irragionevoli, opinionated, a volte nemmeno terribilmente intelligenti… O Lettore, a te il delizioso mestiere di trarre conclusioni. E poi Alan Breck e l’Appin Murder – un personaggio minorissimo e un processo celebre ripresi, rivoltati come guanti, dipinti a colori irresistibili e avventurosi là dove in origine si trattava di un figuro losco e di una vicenda cruda e grigia. Ah, saper indurre il lettore a voler credere a me – persino quando sa benissimo di non poterlo fare…
V. Rodney Bolt. Quando uno scrittore mi fa entrare da una porta saggistico-divulgativa con qualche pretesa, poi mi fa sospettare che si tratti di una parodia accademica, e infine mi scodella in pieno romanzo, quando fa tutto ciò con grazia, sottigliezza e intelligenza, quando mi conduce pei prati in questa maniera e non mi irrita nemmeno un po’, tutto quel che voglio è imparare a barare così a mia volta.
VI. Josephine Tey. Anche lei scriveva teatro in una maniera che mi piace molto, ma non è questo il punto. Il punto è La Figlia del Tempo, che è una riflessione sulla storia, il modo in cui si costruiscono, mantengono e smantellano le leggende nere e un sacco di questioni che mi stanno a cuore – ed è scritto nella forma di un giallo originalissimo, popolato di personaggi ben fatti che parlano in dialoghi scintillanti. Tecnica impeccabile, idee, spirito – e soprattuto il modo di raccontare le storie.
VII. Jeffrey Hatcher. Ci voleva qualcuno che mi scrollasse fuori dalla maniera di Shaw, ed è stato Hatcher, che scrive un teatro d’ambientazione storica vivido, spigoloso e pieno di ritmo, appeso a un cambiamento epocale per rendere tutto più irreparabile, thank you very much.
E poi sono sempre la solita che si dà dei numeri e non riesce a tenerli neppure per sbaglio, per cui lasciate che aggiunga ancora Emily Dickinson. E no, non scrivo poesia, ma la densità e iridescenza del linguaggio… non si può scrivere prosa in questo modo, ma il principio mi piace proprio tanto.
E voi? Chi sono i vostri mentori di carta?
Avrei creduto che la Francia si scuotesse un po’ di più per il seicentesimo anniversario della nascita di Giovanna d’Arco, ma si direbbe che la contadinella-soldato, la piccola coronatrice di re con le voci e le visioni sia un po’ passata di moda – senza per questo avere mai smesso di ispirare legioni scrittori dentro e fuor di Francia. 
Naturalmente non ci si può aspettare nulla del genere da George Bernard Shaw, e però la sua Saint Joan è a suo modo quasi altrettanto singolare. Qui abbiamo una ragazzina ignorante e piena di buon senso, che trascina soldati, capitani e re per pura incrollabilità di proposito, pur restando del tutto umana. Candida, sensata e devota, la Pulzella (“Ma in Lorena mi chiamano Jenny”) sale al rogo con i suoi dubbi di proto-protestante e la sua fede, e torna – in spirito o in sogno – a discutere con Carlo VII.