C’era una volta una Clarina cui piaceva considerarsi cinica in fatto di Dickens.
In fatto di Canto di Natale in particolare… Oh, sia ben chiaro: CdN le piaceva proprio tanto, e lo rileggeva a ogni Vigilia, e non passava Natale senza guardarne qualche adattamento o rivisitazione, qualsiasi cosa passasse la televisione – e tutti sappiamo come va. Quindi sì, per la Clarina di cui parliamo, come per milioni di altre persone su questo pianeta, non era interamente Natale senza la tradizionale dose di Scrooge, Cratchit, Marley, Spiriti vari e compagnia cantante.
Nondimeno, questa cinica creatura, si compiaceva di essere emotivamente irricattabile. Sì, certo, gran bella storia – ma… resta sempre il fatto, si diceva la Clarina, che a smuovere davvero Scrooge è il terrore di quella tomba abbandonata, nera di fuliggine e licheni, senza nemmeno il resto di un fiore – la tomba che porta il suo nome. È tutta questione della terribile e solitaria morte mostrata dallo Spirito dei Natali a Venire, giusto? La generosità di Scrooge nasce prima di tutto dalla paura, si diceva (e diceva all’eventuale interlocutore) la Clarina – e quindi forse la storia non è poi così edificante: lasciamoci pur ricattare narrativamente a dicembre, ma non perdiamo di vista la fuligginosa natura delle cose e dell’umanità…
Ecco, queste erano le cose che la Clarina si diceva, e come ne era soddisfatta!
Poi… poi venne G., con l’idea di ridurre CdN per la scena. La pur cinica Clarina ne fu ben felice – perché negli anni aveva guardato e riguardato tutti quegli adattamenti, e più di una volta aveva rimuginato su che cosa avrebbe fatto al posto dello sceneggiatore di turno, ed ecco l’occasione. “Il mio Canto di Natale,” si disse la Clarina – e si mise a rimuginare, a tradurre e ad adattare.
Ed è inutile che vi dica che tradurre un testo crea un rapporto singolarissimo tra traduttore e storia, tra traduttore e parole. Non è più solo questione di leggere e rileggere: ci si convive, lo si assorbe, lo si filtra, lo si fa proprio nello sforzo di fare da tramite tra l’autore e il lettore – o, in questo caso, il pubblico. Un’altra lingua, un altro secolo, un colore e una consistenza speciali da rendere in un codice diverso… E per di più qui c’era la questione dell’adattamento teatrale, delle esigenze di una compagnia, di un palcoscenico, di una produzione… Tutta una serie di condizioni molto specifiche.
Insomma, la Clarina ci si mise di buzzo buono, produsse, consegnò, e se ne venne via con un diverso apprezzamento per la storia che pure aveva letto e riletto infinite volte fin dall’infanzia.
“Mi sono commossa,” scrisse G. dopo aver letto l’adattamento – e la Clarina se ne ritrovò inaspettatamente felice, e non diede nemmeno troppo ascolto al suo lato cinico che sussurrava “Ricatto emotivo, manipolazione deliberata delle sacche lacrimali…”
Dopodiché vennero le prove – e venne un Attore malconvinto che dapprincipio aveva l’impressione di trovare “pochino” nel personaggio di Scrooge. Era bidimensionale, diceva. Prima era cattivo e poi diventava buono – così! Suonava proprio come una versione teatral/interpretativa delle ciniche cautele di quando la Clarina era tanto cauta e cinica, nevvero? E, con sua lieve sorpresa, la Clarina si ritrovò a difendere strenuamente il personaggio e la storia. Lo spessore, ella disse, era tutto nel progressivo indurimento di Scrooge, da bambino solitario ad allegro apprendista, a rapace uomo d’affari – di rimpianto in rimorso… e lo speculare, progressivo ammorbidimento nel progredire della storia: allo Scrooge della prima Strofa, quello che non aveva rivisitato i suoi vecchi Natali né visto quelli altrui, non sarebbe importato poi nemmeno troppo di morire solo e illacrimato, giusto?
L’Attore guardò la presunta cinica con qualche stupore e non disse nulla al momento – ma poi rimuginò, maturò idee, lavorò di fino… quando arrivò la prova generale aveva ormai costruito un personaggio così complesso, così sfumato, così ricco, che la Clarina non finiva più di incantarsi. Era forse possibile che tutti avessero sottovalutato un po’ Dickens e la sua storia?
E finalmente venne il debutto, e vennero le platee piene, le liste d’attesa, le repliche aggiunte, gli applausi, gli occhi lustri e i sorrisi felici del pubblico… e ce n’era ben ragione, perché regista e attori tutti, e scenografi e costumisti e illuminotecnici – tutti avevano fatto meraviglie e magie. Tutto questo la Clarina lo vedeva succedere per lo più da dietro le quinte a sinistra, dove si occupava dei cambi veloci. Però tra un cambio e l’altro qualche volta si sporgeva nell’angolo del suggeritore a guardare di sguincio una scena o l’altra – e le pareva tutto molto bello.
Poi una sera, mentre sbirciava appollaiata su un angolo di sedia, con la colonna vertebrale ritorta e il collo tirato, si ritrovò un piccolo, piccolo nodino in gola. Era la scena in cui lo Spirito dei Natali Passati mostra a Scrooge i suoi tristissimi Natali di collegiale, e lui ricorda la consolazione dei compagni immaginari… e l’Attore che era stato dubbioso ora era così triste, così pieno di rimpianto e desiderio per quell’ombra di felicità immaginata e lontana…!
“Ma… che cos’hai lì, che ti brilla sulla guancia?” chiese lo Spirito – e avrebbe potuto chiederlo, in tutta pertinenza, alla Clarina rannicchiata nell’ombra dietro le quinte.
Perché la Clarina, vedete… la Clarina non era davvero più cinica in fatto di Canto di Natale. In altre cose senz’altro – ma non in quella. Non più. E quando, un anno più tardi, venne la ripresa, si scoprì che in platea non c’erano solo volti nuovi, ma molta gente che aveva già visto Canto di Natale e desiderava rivederlo. Perché rasserena, dicevano. Perché riscalda e commuove. Perché è edificante ed è bello… “È uno spettacolo che ha qualcosa di speciale,” disse un’Attrice – e aveva ragione.
E la Clarina, definitivamente conquistata, non più cinica e molto felice, fece un’ideale riverenza allo Spirito di Dickens – non senza desiderare di poter scrivere, un giorno, una cosa capace di illuminare occhi non ancor nati.