libri, libri e libri

In Un Libro

InsideaBookCi sono quei – più o meno rari, più o meno felici – momenti in cui ci si ritrova in una situazione descritta in un libro.

La faccenda può funzionare in due direzioni diverse. La più comune è quella in cui si legge qualcosa, una scena, una descrizione, un tratto di caratterizzazione, e si pensa “oh, anch’io!”: in pratica, si ritrova la propria esperienza narrata per iscritto. In realtà succede in continuazione, al punto che non ci si fa più nemmeno troppo caso, perché lo scrittore tende a descrivere la natura umana e l’umano comportamento in qualche grado di realismo proprio per consentire al lettore di identificarsi con i personaggi. Per lo più, il lettore se ne accorge in due tipi di situazione: quando questa specie di territorio comune manca – per scelta deliberata o per incapacità – e allora la caratterizzazione dei personaggi diventa illeggibile; oppure quando si ritrova descritto qualche tratto o esperienza che si credeva essenzialmente proprio, e invece è lì, scritto e stampato. Il secondo caso non è necessariamente una bella sorpresa: può dare un senso di appartenenza e riconoscimento – oppure… mi viene in mente la scena de La Santa Rossa, di Steinbeck, in cui Henry Morgan scopre che anche i suoi uomini desiderano Panama con la stessa intensità con cui lui la vuole. Morgan non è eccessivamente grato al suo secondo per la rivelazione e, come a lui, a tutti può capitare di storcere la bocca nello scoprirsi un po’ meno unici di quanto si credesse.

La seconda direzione è quella opposta, molto più nonsense, molto più straniante. Ci si trova in una situazione e, all’improvviso, ci si rende conto di averla già incontrata – in un romanzo. È straniante perché si legge sempre con l’incredulità sospesa, e quindi si distingue sempre ciò che sta tra le pagine di un romanzo e ciò che ci si aspetta d’incontrare nella realtà. Quando capita che le due dimensioni s’intersechino, un minimo di soprassalto è inevitabile.

Per dire, ricordo una lunga camminata per Lavapiés in un tardo pomeriggio caldissimo, in cui il sole madrileno esaltava tutti gli odori, i rumori e le prossimità. La sensazione di essere in un romanzo di Perez-Reverte era straordinariamente forte. Bastava socchiudere gli occhi per ritrovarsi nel Seicento di Alatriste* , uno qualsiasi dei romanzi.

E già che ci siamo, potrei anche confessare che secoli fa, in Collegio, mi sono ritrovata nella corrente di una porta aperta. Indossavo una gonna lunga molto leggera, e l’aria la agitava facendo ondeggiare l’ombra nel quadrato di sole sul pavimento. Ero lì che contemplavo la mia ombra (e mi giravo cercando l’effetto migliore) quando mi sono sentita osservata e, girandomi, ho trovato la rettrice che mi guardava con le sopracciglia sollevate. Avete presente la scena de La Rivolta nel Deserto in cui Lawrence sta ammirando la propria ombra negli abiti arabi che Ali gli ha appena regalato, e viene sorpreso da Auda? Ecco…

Meno imbarazzante è stata la volta in cui, davanti al teatro Pergolesi di Jesi, mi sono ritrovata per la prima volta in mezzo a una compagnia di melomani, gente che si ritrova soltanto all’opera, chiama i cantanti per nome e ricorda la Traviata del ’71 a Parigi, il Lohengrin di Vienna e la Bohème di Torino, quando quel soprano bulgaro sbagliò il mi bemolle. Quando avevo letto Buio In Sala, di Camilla Salvago Raggi, avevo preso la descrizione dell’ambiente con il proverbiale grano di sale – grano di sale esploso con notevole botto a Jesi.

InsideaBook2Ora, tutto ciò non ha necessariamente molto a che fare con l’esperienza pratica: non molti di noi hanno accoltellato un re o persuaso il coniuge a farlo, ma tutti abbiamo familiarità con i terrori notturni, il rimorso, la disperata volontà di convincersi che tutto va bene e il terribile desiderio di poter tornare a un istante prima che le cose cambiassero irreparabilmente. Ergo, se stessimo parlando di tecniche narrative, anche nella più lontana e improbabile delle situazioni, reazioni e comportamenti dei personaggi dovrebbero essere tali da far vibrare in risposta qualche corda dell’animo del lettore – al momento o, semmai, più tardi.

E voi, o Lettori? Mai ritrovati dentro un libro?

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* E tutto sommato bastava riaprirli per decidere che un sacco di cose non sono poi cambiate troppo negli ultimi quattro secoli…

il Palcoscenico di Carta · teatro

E Stavolta, Pirandello

LocSmallMaggio torna e il PdC rimena…

Yes, well – I know, ma non mi sono trattenuta. E comunque è del tutto vero: torna il Palcoscenico di Carta, e questa volta festeggiamo il centocinquantesimo anniversario della nascita di Luigi Pirandello.

Dal 2 al 16 maggio, alla libreria IBS+Libraccio di Via Verdi a Mantova, leggeremo I Giganti della Montagna, dramma incompiuto a cavallo tra fiaba e teatro nel teatro…

Per il PdC è un altro esperimento: per la prima volta ci avventuriamo  fuori dal repertorio elisabettiano – come d’altra parte ci eravamo sempre ripromessi di fare. Una volta di più, ci saranno gli attori dell’Accademia Campogalliani e quelli di Hic Sunt Histriones, e un’abbondanza di parti, grandi e piccole, per chiunque voglia lanciarsi e leggere con noi.15193449_1104584129658135_891963327258587953_n

Perché questa è l’idea del PdC: leggere teatro ad alta voce, in gruppo, sperimentando in modo diverso testi che non si vedono tutti i giorni…

Volete provare? E allora iscrivetevi usando il form che trovate a questo link. Vi assegneremo una parte e vi manderemo il testo. Se invece volte ascoltare (e magari decidere di provare la prossima volta, perché le parti vengono riassegnate a ogni lettura), dovete solo raggiungerci in libreria – martedì 2, 9 e 16 maggio, appena prima delle 18.

grilloleggente · libri, libri e libri

Riletture

RereadYellowParlavamo qui di riletture, e in un caso di serendipità quasi perfetta, mi è capitato di conversarne proprio ieri e a tutt’altro proposito. E nel corso della conversazione ho detto che il gusto di rileggere è, quand’anche non fosse nient’altro, la dimostrazione di un fatto: non conoscere il finale non è il fattore chiave del piacere di leggere. Ripensandoci, però, forse la faccenda è un nonnulla più complessa e merita che ci si rimugini un po’ su.

Allora, vediamo. Intanto, non tutti rileggono. Mio padre era un rilettore compulsivo: molti dei libri che erano suoi si riconoscono dalle rilegature: hanno visto parecchio servizio. La mia amica C., in compenso, non ha mai riletto un libro in vita sua “perché una volta letto è letto: quel che vale la pena resterà, quel che si dimentica non valeva la pena.” E si dice che nel corso della sua (breve) vita il generale vandeano Henri de la Rochejaquelein non abbia letto e riletto altro che le memorie di non so più quale illustre stratega seicentesco. Forse non conosceva San Tommaso d’Aquino, che trovava un po’ inquietante lo hominem unius libri.

In secondo luogo, non tutto si rilegge. Ci sono libri che diventano gente di famiglia, a cui si torna ancora e ancora in cerca di conforto o di guida; ci sono libri della cui bellezza non ci si stancherebbe mai e allora ogni tanto ci si concede una rilettura nello stesso spirito con cui si torna alla National Gallery ogni volta che si passa per Londra; ci sono libri associati a un momento particolare, che si rileggono per ritrovare un’atmosfera che può essere interna al libro oppure aggiunta da circostanze ormai vecchie di anni*; ci sono storie così buffe o così commoventi che le si riprende in mano per sollevarsi il morale o per piangere un pochino; ci sono esempi così perfetti di trame o personaggi o ambientazioni che ci si ritorna per studiare come diamine sono stati fatti; ci sono capitoli, scene e descrizioni prediletti, ci sono pagine stagionali al limite del rituale; e poi ci sono libri che si sarebbe curiosi di apprezzare più di quanto si sia fatto a una prima lettura.rereadblue

La mia teoria generale in proposito è che anche per il più accanito dei rilettori, anche nel caso della rilettura più perfetta, leggere e rileggere siano due attività profondamente diverse. La prima lettura è un’esplorazione, un incontro e una continua scoperta, una faccenda piena di thrills e di sorprese – e non mi riferisco al non sapere come va a finire. O almeno non solo, perché in realtà è questione di ogni svolta della trama, ogni tratto di caratterizzazione, ogni battuta di dialogo, ogni metafora e ogni aggettivo. È, nei casi più felici, quel genere di sospensione che tiene il lettore alzato per una notte intera, che gli fa divorare pagina dopo pagina dopo pagina, che gli fa aspettare con ansia il momento in cui potrà tornare a leggere. E che, per converso, gli fa rallentare i ritmi mano a mano che le pagine diminuiscono – per timore di finire troppo presto. È una specie di primo amore e, una volta passato non torna più.

La rilettura è un’altra questione. La rilettura è più analitica e più sottile Si ricercano le gioie della prima volta e se ne osservano le ragioni. Si notano gioie nuove, strati più profondi, e particolari minuti che erano sfuggiti la prima volta. Si assapora, si setaccia e si categorizza. Si ricorda e si voltano gli angoli – I mean, le pagine – con la stessa piacevole anticipazione che si sente nel tornare in luoghi conosciuti. La familiarità del paesaggio generale consente di approfondire la conoscenza dettagliata e, se qualche volta si sospira per la perduta fiamma della prima volta, tuttavia ci si conforta con il piacere di scavare ancora un po’. E se il libro è abbastanza complesso e le riletture sono giudiziosamente distanziate, ci sono buone probabilità di trovare ancora qualche nuova sorpresa ogni volta – semidimenticata o solo nascosta dove non era mai capitato di guardare prima.

Alla fin fine, non è poi così diverso dal rapporto con una persona, vero?

7ca158176ce9d91067607e4cece866e0E sì, io rileggo. Rileggo Lord Jim, rileggo Canto di Natale ogni notte di Vigilia, rileggo i racconti di Kipling, rileggo Shaw, Shakespeare, Schiller e Marlowe. Rileggo Durrell nelle giornate nere. Rileggo persino certa Agatha Christie for Englishness’sake. E se un autore ha scritto un romanzo storico in tutto il suo corpus, è quello che vado a rileggere. Rileggo Rostand e certo Burgess, rileggo Graves e Runciman. Rileggo Emi Mascagni, La Freccia Nera o The White Boar attorno a Pasqua. Rileggo il finale de La Cripta dei Cappuccini – e ogni volta mi commuovo. E rileggo poesia – ma quello è un cavallo di tutt’altro colore. E ultimamente ho riletto bocconi e spizzichi di Ronald Blythe, perché avere in mente il favoloso ritmo della sua voce narrante mi aiuta a trovare il mio. E a volte rileggerei di più, poi mi trattengo per il motivo che si diceva: se seguito a farlo, dove troverò il tempo per i libri nuovi?

E voi, o Lettori? Rileggete? Cosa rileggete? Come rileggete? Perché rileggete?

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* E questo è potenzialmente rischioso. A volte lo si fa ed è come tornare in un posto e restarne delusi. Try at your own risk.

libri, libri e libri · Storia&storie · teatro

La Guardia Bianca

Mikhail Belaya-Sibir-Bulgakova_articleimageDici “Bulgakov”, e tutti pensano a Il Maestro e Margherita. Oppure Cuore di Cane o, semmai, Uova Fatali.

La Guardia Bianca è un’altra questione. La Guardia Bianca è un primo romanzo e, come tutti i primi romanzi, è un po’ una faccenda a sé. Niente allegorie grottesche, niente satira feroce, qui: immaginatevi un quadro di famiglia che sembra preso da un primo atto di Chekov, ma visto attraverso una lente deformante. I tre giovani fratelli Mihail_Bulgakov__Belaya_gvardiyaTurbin, il medico militare Aleksej, la bella Elena e l’adolescente Nikol’ka, hanno appena perduto la madre. È il 1918, e Kiev è scossa dalla Rivoluzione. All’improvviso, il vecchio mondo che Elena e i suoi fratelli conoscevano si sfalda scaglia a scaglia. I Turbin, figli della buona borghesia intellettuale, con il loro salotto pieno di libri e i loro amici ufficiali*, guardano la rivoluzione con sospetto e con timore. E mentre Kiev, presa tra i Bianchi, i Rossi e i Tedeschi, vacilla nell’incertezza e nell’anarchia, Aleksej e Nikol’ka si arruolano nella Guardia Bianca…

Ebbene sì, un romanzo sui Russi Bianchi. Gli sconfitti. I nemici della rivoluzione. Non capitava tutti i giorni, e non andò del tutto diritta: la prima pubblicazione a puntate (nel 1925) fu bruscamente sospesa per la chiusura del periodico da parte delle autorità. La cosa sorprendente è che a Bulgakov, con i Turbinssuoi eroi (anti-eroi, se vogliamo) controrivoluzionari, non sia capitato niente di peggio** che un divieto d’espatrio durato tutta la vita. In compenso, l’adattamento teatrale chiamato I Giorni dei Turbin ebbe un successo sesquipedale: rimase in cartellone per un migliaio scarso di repliche tra il 1926 e il 1941. Pare che Stalin ammirasse enormemente I Giorni dei Turbin. Ora, io non so se davvero l’abbia visto almeno venti volte, commuovendosi come un bambino – ma così vuole la tradizione. Gli piaceva talmente tanto che, pur non consentendo a Bulgakov di espatriare come avrebbe voluto, gli concesse una certa quantità di protezione, e lo insediò al Teatro delle Arti di Mosca. Verrebbe da pensare che tanto successo (e tanto in alto) dovesse Turbins5riabilitare il romanzo, vero? E invece no: rimase bandito e non fu più pubblicato fino al 1966, nei tardi anni di Kruscev. Va’ a sapere…

Indipendentemente da questo, La Guardia Bianca è meravigliosamente scritto, con personaggi ben caratterizzati (impossibile non affezionarsi ai tre fratelli e al loro legame), una robusta dose di fatalismo slavo, un mondo che crolla, e una collezione di magnifiche descrizioni***. Epico e lirico e triste e molto umano al tempo stesso. Da leggersi ascoltando il Çaikovskij tardo. E non sarà facile – tanto meno perché potrei sbagliarmi, ma non credo che ne esistano traduzioni italiane né inglesi, ma quanto mi piacerebbe vedere I Giorni dei Turbin a teatro…

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* La casa dei Turbin riproduce esattamente la casa della famiglia Bulgakov.

** Vedi alla voce Pasternak, per esempio.

*** Bella, ma proprio bella, traduzione di Ettore lo Gatto per Einaudi.

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libri, libri e libri

Le Cose che Piacciono a Me

Ecco le coseÈ la metà di giugno, o Lettori.

Non si direbbe – o almeno non lo si direbbe dalle mie parti,  dove ci godiamo un diluvio dietro l’altro – ma l’estate è a un passo. E, come ogni anno, Ad Alta Voce rompe le righe fino all’autunno.

Chiudiamo questa sera, all’Ostello dei Concari di Governolo (dettagli qui), con un incontro dal tema “Ecco le Cose che Piacciono a Me.”

Ricordate Tutti Insieme Appassionatamente? Julie Andrews che cinguetta con i fanciulli Von Trapp?

Ecco, una cosa così. Letture tratte dai libri che ci piacciono di più, o a proposito delle cose che ci piacciono tanto. Libri preferiti, posti, idee, passioni, ricette… Sarà come un negozio di giocattoli ideale. EccoleO magari di dolci… (Tra parentesi, quale delle due idee vi rende più felici?)

Se siete da queste parti, perché non vi unite a noi – portando qualcosa da leggere o solo per ascoltare? Sarà divertente, sarà un inizio d’estate diverso. Saranno cose che ci piacciono.

A questa sera…

grilloleggente

Baratti

book_swapVi ho mai raccontato di Polly?

Polly e io abbiamo condiviso per quattro anni una stanza di collegio e, pur volendoci un gran bene, per quattro anni ciascuna di noi ha sospirato con tristezza e scetticismo sui gusti letterari dell’altra.

All’epoca, Polly leggeva avidamente Tom Robbins, gli Scandinavi e ogni Sudamericano possibile e immaginabile. Io divoravo Conrad (tutto, tutto, persino i libri brutti), un sacco di saggistica storica e tutti i romanzi navali su cui potevo mettere le mani.

Tuttavia, lo spirito missionario è insito nella natura umana, e a ognuna delle due pareva impossibile non poter inculcare un po’ di buon senso letterario all’altra… Parlavamo molto di libri, ci raccontavamo a vicenda trame e meraviglie di quello che avevamo letto, e avevamo surreali discussioni in cui Polly parlava di Vargas-Llosa e io di Golding: ciascuna andava felicemente per il suo binario, e scambiavamo cenni sporgendoci dal finestrino dei rispettivi treni.

Quello che facevamo ogni tanto, però, erano i baratti: se tu leggi X, allora io leggo Y.bookexchange

Sì, sul serio. Per esempio, ho letto La Casa degli Spiriti di Isabel Allende in cambio di Lord Jim di Conrad. No, nemmeno a me sembra uno scambio equo, ma tant’è: c’era poco che non avrei fatto per la causa di Lord Jim, e la mia diabolica compagna di stanza se n’era accorta…

E ho letto Eva Luna Racconta in cambio di Rapito, e Polly mi rinfaccia ancora adesso l’infinità di pagine che David impiega a rendersi conto che non è poi così naufrago, e che con la bassa marea potrebbe andarci a piedi, sulla terraferma… Naturalmente non ho perso molto tempo, negli ultimi vent’anni, a difendere David, ma, nemmeno Alan ha conquistato Polly. E nemmeno Jim. E d’altra parte nessun abitante della Casa degli Spiriti ha conquistato me. E tuttavia, sono molto grata di quei baratti, tanti anni fa. Se Polly non avesse insistito, non avrei mai sfiorato un libro della Allende con l’orlo della veste per… be’, non c’è altro nome per questo: prevenzione. Adesso ho letto qualcosa di suo, e posso dire con cognizione di causa che non mi piace, e perché non mi piace. Allargare gli orizzonti, and all that jazz. A parte tutto, non si sa mai che cosa si può scoprire.

Tant’è che qualche baratto abbiamo continuato a farlo per anni, anche dopo l’università… Poi, quasi senza nemmeno accorgercene, abbiamo smesso, ma forse è ora di riprendere: è bello avere qualcuno che, ogni tanto, ti spinge al di là delle abitudini/latitudini acquisite.

 

grilloleggente · Vitarelle e Rotelle

A Volte È Troppo

Tardissimo – scusate.

Eccomi qui. In corsa. *Pants a little*

Allora, post.

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Tutt’altro che male…

C’è questo libro ambientato a Parigi. Leggerlo non è stata una mia idea: è arrivato con il pacco della HNR. Mezza spanna di hardback bello fitto, di un’autrice che non ero troppo sicura fosse nelle mie corde. E invece… sorpresa. Scrittura molto piacevole, ambientazione men che consueta, ottimi personaggi, atmosfera amarognola, bei temi, trama interessante che procede per rivelazione progressiva di segreti su segreti. Tutt’altro che male.

Molto presto nella storia si capisce che c’è un’agnizione all’orizzonte. Ah well, ci sta. L’autrice l’ha preparata bene, e s’incastra alla perfezione con tutto il resto. E se noi lettori sospettiamo che, quando scoppierà, la bomba debba travolgere l’ignara protagonista in modi sgradevoli, ben presto un’altra rivelazione arriva – seconda agnizioncella minore di segno opposto – a rimettere tutto a posto.

Be', dài, ci sta...
Be’, dài, ci sta…

E noi non possiamo nemmeno storcere troppo il naso, perché, di nuovo, è congegnata piuttosto bene e ci sta – narrativamente, storicamente e psicologicamente. E quindi? Tutto bene?

Tutto benone, finché – poco, pochissimo più tardi, non ci troviamo indotti a sospettare che il personaggio che non è chi credeva di essere  sia in realtà il figlio perduto del Mezzosoprano in Disarmo…

E, per quanto mi riguarda, questo è il punto in cui questa storia va a sbattere contro un baobab – e a farsi male non è l’albero.

Ecchediamine: tre agnizioni – non solo nello stesso libro, ma all’interno dello stesso gruppo famigliare (di due), e nel giro di poche settimane? Il fatto che ne avessi ingoiate due va a pieno credito dell’abilità dell’autrice – ma tre? A meno che l’autore non sia defunto da un centinaio d’anni o non si tratti di una parodia di genere, mi rifiuto di prendere sul serio una storia con tre agnizioni…

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Ok, Ms. B. – mi hai persa per strada…

Fosse dipeso da me, avrei abbandonato la lettura. Siccome era lavoro, sono andata avanti, con il sopracciglio levato e il sorrisetto cinico,  trovandoci molto meno gusto di quanto avrei potuto…

Fino a dieci pagine dalla fine, quando la terza agnizione si sgonfia, la prima recede in secondo piano, l’equilibrio della storia si raddrizza e tutto si annoda in un finale dolceamaro e soddisfacente.

Un finale che non avrei mai raggiunto, se non avessi dovuto recensire il libro per lavoro. Non l’avrei raggiunto perché quello che sembrava un abuso di cliché aveva fatto franare a valle la mia sospensione dell’incredulità prima di pagina centocinquanta. Per cui sì, il rovesciamento del cliché a pagina trecentoquaranta è un grazioso coniglio da tirar fuori dal cilindro – ma ne valeva davvero la pena?

Valeva la pena di farmi credere di leggere un libro ridicolmente sovraccarico per poi sorprendermi alla fine con l’equivalente narrativo di un “Ci avevi creduto, eh? Sciocchina…”

A meno che, in realtà, l’agnizione n° 1 non dovesse rimanere nascosta, e diventare palese soltanto dopo che la n° 3 era implosa? E magari l’ho notato troppo presto perché sono un’iperanalizzatrice troppo presa dai meccanismi per godersi il giocattolo?

Può darsi – e questo è il motivo per cui non vi dico di che libro si tratti – caso mai vi capitasse in mano, così com’è o quando e se verrà tradotto.

E tuttavia, non posso fare a meno di trovare una morale in tutto questo: a volte, voler essere troppo in gamba rischia di non pagare…

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Al Cuor (Del Lettor) Non Si Comanda

Certi libri siamo certi che ci piaceranno, ci pare proprio che debbano piacerci, vogliamo tanto che ci piacciano… e poi invece no.

71747-319x212-AngryGirlwithBookNon sto parlando tanto di quei titoli che ci vengono regalati o consigliati con zelo da amici e famigliari certi che debbano piacerci, quanto di quelli di cui ci convinciamo da soli.  Capita.

A volte è una questione di autore. Siccome del tale ci è piaciuto tanto l’uno o l’altro libro, o un buon numero di libri, perché mai non dovrebbe piacerci anche il prossimo? A me è capitato con Conrad. Sull’onda dell’entusiasmo per LJ, Tifone, la Linea d’Ombra, il Negro del Narcissus e compagnia cantante, quando potei mettere le mani sul resto della sua bibliografia nella biblioteca di Humanities a Cardiff, non mi parve vero. Solo che poi, nel divorare romanzi, saggi e racconti mai tradotti in Italiano, arrivai alle collaborazioni con Ford Madox Ford. Ouch. Non potevo credere che non mi piacessero. Non potevo credere che fossero… be’, non c’è altra parola: brutti. È dura scoprire che il proprio eroe letterario non è sempre all’altezza di se stesso.

In fatto di Walter Scott, sono meno certa. Voglio dire, dopo il ciclo di Waverley, Old Mortality, Redgauntlet e Rob Roy, imbattermi in The Hearth of Midlothian fu dura. Non riuscivo ad andare avanti, non m’interessava nulla di nessuno dei personaggi… posso anche confessare di non averlo finito – ma il fatto che io l’abbia trovato mortalmente noioso non significa affatto che non sia un buon libro.

Altre volte è una questione di argomento, genere o ambientazione  – in una combinazione qualsiasi. Per me è spesso il periodo storico, e mi devo confessare anche recidiva. Edward Marston scrive romanzi ambientati in una varietà di secoli, uno più attraente dell’altro. Quattro ne ho voluti leggere, in crescente irritazione, prima di arrendermi all’idea che detesto il modo in cui scrive. Ma forse sto guarendo da questo genere di stupidità: la II Guerra Punica è la II Guerra Punica, e Annibale è Annibale, ma di Ben Kane mi è bastato un volume per decidere che non toccherò nemmeno con un palo da barca il resto di una trilogia in cui la trama balzellon-balzellona di coincidenza in reazione immotivata, e gli anacronismi spuntano da tutte le parti. E anche di Patrizia Debicke non leggerò mai più nulla, dopo essermi lasciata attirare in trappola da L’Uomo dagli Occhi Glauchi – un po’ per il quadro di Tiziano, un po’ per l’epoca e un po’ per il giovane Lord Burleigh – e averlo trovato scritto da non dirsi. E abbiate pazienza se torno a Conrad, ma quando mi si è parlato di La Storia Segreta del Costaguana, di Juan Gabriel Vàsquez, incentrato sul Conrad di Nostromo, e su una serie fittizia di eventi ispiratori, ho reagito come i gabbiani di Nemo: Mio!  Silly of me, a ben pensarci. Che posso dire? Gli autori sudamericani non sono, ma proprio non sono la mia tazza di tè – quale che sia l’argomento. meh-cat

Poi invece capita che il libro non abbia nulla che non va – solo che non è quel che ci si aspettava. Come Foe, di Coetzee, che mi aspettavo molto più incentrato su Defoe, e invece più che altro rimescola le carte nella storia di Robinson Crusoe. Per carità – è un molto ben scritto, e intreccia alcuni dei miei temi prediletti in fatto di arte&vita, narrativa, finzione e verità… per cui proprio non arrivo a immaginare perché diamine non mi sia piaciuto – ma resta il fatto che, per quanto l’abbia iniziato con le migliori intenzioni, non mi è piaciuto.

E suppongo che questa casistica non debba valere soltanto per la narrativa, ma devo dire che con la saggistica mi capita molto di rado. In realtà, l’unico caso eclatante che mi viene in mente è la biografia di Teodora di Paolo Cesaretti. E badate, mi avevano anche avvertita – ma non capivo come la biografia di un’imperatrice bizantina potesse non piacermi. E invece. Magniloquente, contorta, gonfia e psicanaliticheggiante – a riprova di due fatti: prima, non tutto è oro quel ch’è bizantino; e poi bisognerebbe dar retta agli amici che non sempre condividono i nostri gusti, ma di sicuro li conoscono.

Come dicevo, capita. Brucia molto più dell’analoga situazione con un libro che si è preso in mano senza particolari aspettative, e rende più difficile accantonare la lettura infelice. E allora magari si tiene duro lo stesso, per senso del dovere, o perché si spera, insistendo, che le cose cambino, o perché si vuole essere proprio certi. Oppure si esercita il terzo diritto imprescrittibile del lettore e si piant lì – ma, ripeto, con qualche bruciorino di stomaco, che diavolo…

E voi? Vi capita di non riuscire a farvi piacere qualcosa, per quanto lo vogliate? E nel caso, che fate? Tenete duro o abbandonate?

pessima gente · scrittura

Sulla Letizia Del Lieto Fine

Mi si fa notare che tendo a parlare – e scrivere – di lieto fine con lo stesso enfatico disgusto con cui parlerei e scriverei di scarafaggi, e adesso sento la necessità di spiegare un pochino.

Pare che non abbia mai avuto fiducia nel Vissero Per Sempre Felici E Contenti. Pare che, a quattro anni, dopo una lettura di Cenerentola con il finale canonico, continuassi a chiedere: ma proprio per sempre? Proprio proprio? E non succede più niente? Forse avevo qualche dubbio sulla capacità di Cenerentola, col suo passato da colf, di adattarsi alla vita di corte…

Ma di fatto, non posso fare a meno di chiedermi: e dopo? Siamo certi che a gennaio Scrooge non torni avaro e bisbetico? O che Lizzie Bennet e Mr.Darcy non si scoprano dopo tutto incompatibili? O che Sigognac non si vergogni un po’ di Isabella che per sedici anni è stata un’attrice girovaga? O che Lauretta e Rinuccio prima o poi non si lasceranno coinvolgere dall’ostilità fra le famiglie?

Insomma, di solito un lieto fine arriva o per conciliazione di estremi o per ricostruzione di un intero distrutto dalle circostanze. Tra la prima e l’ultima pagina ci sono stati guerre, rivoluzioni, drammi familiari, adulteri, crimini, separazioni e disastri misti assortiti, o almeno dovrebbero esserci stati. Il lieto fine è, nella migliore delle ipotesi, un equilibrio precario, e mi rifiuto di credere che sia definitivo.

Guardate Il Barbiere di Siviglia: il sipario si chiude con il Conte Almaviva che impalma Rosina, liberandola dal tutore tiranno. Eugè, giusto? Be’, non proprio, visto che all’epoca delle Nozze di Figaro il Conte è già un farfallone amoroso abituale. Si direbbe che il fine non sia stato poi così lieto. O, ancora meglio, si direbbe che il lieto fine sia una circostanza effimera e non una certezza incisa nella pietra.

Oppure Dobbin: per tutta la considerevole durata di Vanity Fair, William Dobbin ama in silenzio Amelia, la aiuta con discrezione e delicatezza in un’infinità di circostanze, la salva dal disastro finanziario senza farglielo sapere, sopporta devotamente ogni stupidità e mancanza di considerazione e via dicendo. Admirable fellow. Alla fine, Amelia si scopre innamorata di lui e lo sposa. Felici e contenti? Non proprio: dopo averla amata tanto a lungo, Dobbin scopre Amelia un po’ al di sotto di tanta devozione. Oh, continua ad essere ammirevole, resta un marito affettuoso e protettivo e tutto quanto, ma il lieto fine non l’ha reso felice*.

Morale? Il lieto fine ci manda a dormire più contenti per una sera, ma siamo franchi: come antidepressivo funziona solo fino alla prima piccola, semplice, ovvia domanda: e poi? E a parte questo, non è come se i finali tristi non fossero soddisfacenti. “Ti è piaciuto?” chiesero a mia madre, all’uscita dal cinema dove aveva visto Il Dottor Zivago, e lei: “Oh sì! Ho pianto tanto!”

Mi si dice che dico così in un affanno di autogiustificazione, perché i miei romanzi finiscono tutti maluccio anzichenò. Non saprei. Il mio primo protagonista, secoli fa, l’ho gettato sotto un taxi mentre partiva per arruolarsi nella Guerra di Spagna. Allora la mia amica F., una dei miei lettori sperimentali preferiti, m’informò sentitamente che ero un’omicida, e che non mi avrebbe mai, mai, mai perdonata. E infatti, quasi vent’anni dopo, ogni tanto me lo rinfaccia ancora. Non posso dire di essermi riformata, da allora, ma credo di avere delle attenuanti. Potrei dire, a parte il povero Ned, che è difficile scrivere romanzi storici incentrati su guerre, sollevazioni e assedi senza un conto vittime… Ma in realtà il punto è l’ineludibile piccola domanda: e poi? Che ne sarà dei miei personaggi dopo la fatidica paroletta di quattro lettere? In un certo senso – e se volete dire che è morboso, fate pure – uccidere i propri personaggi è l’unico modo di assicurarsi definitivamente del loro destino: una volta che sono morti, non può succedere loro più nulla, giusto?

Oddìo, forse non proprio, considerando la storia che sto scrivendo, in cui i guai del protagonista non fanno che raddoppiare in numero e grado nel momento in cui muore, ma in via generale e fantasmi a parte… Non tanto i cornicioni che cadono, quanto Pascoli, you know, e gli aquiloni, e l’unico, unicissimo merito che sia disposta a riconoscere al detestabile L’Eleganza del Riccio

Be’, d’accordo – non è detto e mi rendo conto che suona un po’ allarmante. Però diciamo che, mercato permettendo, e se non ci sono ulteriori volumi in programma, personalmente appartengo alla scuola di pensiero** secondo cui muore giovane chi è caro al suo autore.

E voi? Li assassinate, i vostri personaggi? E perdonate gli autori che assassinano i loro?

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* A titolo di paradosso, si può sostenere che Dobbin sarebbe morto più felice se l’avesse presa nelle costole a Waterloo, prima che – eccetera eccetera.

** In compagnia, a quanto pare, di Victor Hugo… 

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Leggendo In Inglese

Ricevo una mail che, tra molte altre cose, dice anche questo:

Sul fatto che tu legga solo libri inglesi e americani, non dico niente. Sono fatti tuoi e ciascuno legge quel che gli/le pare e poi ne scrive sul suo blog. Quel che mi domando è perché tenere un blog in italiano e poi recensire libri che in italiano non sono stati tradotti. […] Tutti i tuoi lettori sanno l’inglese abbastanza bene per leggere le cose che recensisci? Io ti leggo da un po’ meno di due anni, e noto che ultimamente ti sei messa a recensire cose non tradotte. In tutta sincerità, quando trovo un post così, mi fai venir voglia di leggere e poi alla fine scopro che non posso. Ci resto male, non è divertente, e sinceramente ti fa anche sembrare un po’ snob. Possibile che non trovi niente di tradotto, che possiamo leggere anche noi?

Ah già, le recensioni di libri non tradotti…

Ok, parliamone. Ho raccontato qui*, come e perché una ventina d’anni fa io abbia cominciato a leggere in Inglese e sia rimasta folgorata dall’esperienza. La versione breve della storia è che negli ultimi due decenni ho letto tutto quello che potevo in lingua originale – in Inglese, ma anche in Francese e, in anni più recenti, in Spagnolo. Sul Tedesco sto ancora lavorando, ma nutro speranze.

All’inizio è stata una faccenda di pura esuberanza, entusiasmo da scoperta. Ho riletto in originale libri che avevo già letto in Italiano, per il gusto del diverso colore della lingua, e per la quantità di parole, modi idiomatici, costruzioni e colloquialismi che si potevano assorbire. Il che può essere parzialmente responsabile delle sfumature dickensian-austenesche del mio Inglese, ma questa è un’altra storia.

Dunque, per un po’ di anni ho letto anche in Inglese, anche perché non è che fosse facilissimo procurarsi edizioni in lingua originale. A Pavia sì, ovviamente. A Cardiff e a Londra il problema non si poneva. Una volta tornata a Mantova… oh well, stendiamo un tulle misericorde.

Ma nel frattempo avevo scoperto internet e Amazon, e le possibilità si erano allargate enormemente – e anche di questo abbiamo già parlato.

Poi ho scoperto un’altra cosa. E cioè che, se volevo leggere nel mio genere, in Italia non c’era gran trippa per gatti. E non sto parlando di nulla di spaventosamente esoterico: romanzi storici.

Alas, non c’è paragone tra la scelta di romanzi storici italiani e romanzi storici inglesi e americani, in fatto di abbondanza, di varietà di periodi storici e ambientazioni e anche di qualità generale. Di tutto questo bendidio in Italia si traduce poco – qualche romanzo storico propriamente detto, un po’ di saggistica, pochissimi gialli storici – e quel poco non sono particolarmente ansiosa di leggerlo in traduzione, ma non è questo il punto. Il punto è tutto il resto che non si traduce affatto: treni merci di straight historicals, gialli ambientati nei secoli più improbabili, saggistica meravigliosa e fantasy storici.

Quindi, o Corrispondente, non leggo in Inglese perché sia snob, ma perché molto di quel che mi piace leggere si trova in Inglese o non si trova affatto e, se anche volessi leggerlo in traduzione, non potrei. Quanto alle recensioni…

Lo confesso: ho esitato prima di cominciare a dedicare post interi alla recensione di titoli non tradotti – e finora credo di averlo fatto non più di un paio di volte. Interesserà a qualcuno se lo faccio? Si sentirà maltrattato chi non legge in Inglese? A decidermi è stata la lettura di una certa quantità di ottimi fantasy storici e fantasy of manners, generi trascuratissimi alle nostre latitudini e, a mio timido avviso, meritevoli di scoperta. Perché sono diversi, perché tendono ad essere originali, intelligenti e ben scritti. Perché mostrano alcune affascinanti direzioni che può prendere la narrativa a sfondo storico se non vuole anchilosarsi.

E allora sì: credo che continuerò a recensire libri non tradotti – titoli recenti e classici da riscoprire, e bizzarrie vecchie e nuove, perché… be’, perché c’è un mondo là fuori. E perché leggere resta il mio modo preferito di imparare ed esercitare una lingua. E perché penso che valga la pena di sapere che ci sono altre possibilità.

Ecco, alla fin fine è questo il punto: credo davvero che ne valga la pena.

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* E a dire il vero un pochino anche qui