Circola dalle mie parti (o almeno vi circolava qualche decennio fa, quand’ero un’implumina), questa piccola filastrocca:
Din Don, campanon,
Tre sorelle sul balcon:
Una che fila, una che taglia,
Una che fa i cappellini di paglia.
Me la cantava la mia meravigliosa nonna e, per qualche motivo, quest’immagine di tre sorelle sedute una accanto all’altra, perennemente occupate nei loro compiti specifici, mi dava un’impressione men che domestica. Le immaginavo severe – nonostante il dettaglio civettuolo dei cappellini…
E non posso dire di avere speso molti pensieri sulla filastrocca, crescendo – fino a quando, decenni più tardi, mi sono resa conto di chi (o che cosa) siano queste tre sorelle. Andiamo: tre figure femminili, una fila, una taglia – ed è chiaro che i cappellini di paglia sono lì per rima… Non sono le Moire, nella mia filastrocchetta d’infanzia? O le Parche. O forse le Norne – anche se quelle, più che filare, tessono il destino (o talvolta lo incidono).
Favoloso, non trovate? Il mito – e non un mito qualsiasi, ma quello del fato e del suo funzionamento) – che scende lungo i millenni, si semplifica, si traveste, diventa quasi irriconoscible, ma non del tutto, e seguita ad essere tramandato, in rima e ritmo, come si faceva intorno al fuoco tutti quei millenni orsono. Sono assolutamente affascinata.
E spigolando per la Reticella ho trovato* quest’altra versione:
Din don campanon,
quattro vecchie sul balcon:
una che fila, una che taglia,
una che fa i cappelli di paglia,
una che fa i coltelli d’argento
per tagliar la testa al vento.
Qui le filatrici sono vecchie e in numero di quattro – ma, sospetto, più che altro per ragioni eufoniche. Badate, tuttavia, al particolare dei coltelli d’argento: nel mito l’inflessibile Atropo si descrive munita di “lucide cesoie”… Ci siamo di nuovo, non trovate?
Lo ripeto un’altra volta: è magnifico. C’è in una poesia di Seamus Heaney il brivido di scoprire che un vecchio oggetto di uso comune, o una curiosità lasciata a impolverarsi su uno scaffale è in realtà qualcosa di antico, carico di storia e di significato… Ebbene, non è così per questa storia? Un mito antichissimo e potente, nascosto sotto i colori di una filastrocca per bambini?
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* Su un sito chiamato Filastrocche.it.
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Una conversazione, ieri pomeriggio, mi ha riportato in mente una cosa che diceva Seamus Heaney a proposito dell’apprendimento delle lingue, e del modo in cui ciascuno parla (e scrive) una sua lingua, e delle sovrapposizioni di queste lingue individuali. E, naturalmente, della poesia…
Ma sento che mi sto avviando per una brutta china. Torniamo a noi, torniamo a Seamus Heaney, secondo il quale il poeta crea cerniere tra il proprio Gazzellese e la Lingua Franca usando parole quotidiane in posizioni e funzioni che ne segnalano profondità semantiche diverse, parallele o perpendicolari a quelle della Lingua Franca.
Quando mi si chiede chi sono i miei poeti preferiti*, in genere rispondo: Seamus Heaney, e poi Emily Dickinson, Kipling, Gozzano.**
Tutto quello che sta in mezzo a questi due picchi è, per forza di cose, vallata. E sì, lo ripeto, mi vergogno, perché adoro Kipling, e non voglio certo lasciarlo a fondovalle… recupero qualche punto se dico che è più un tentativo di proteggere la mia predilezione che di nasconderla? Parlando seriamente, tuttavia, se il mio pantheon poetico contenesse sei nomi anziché tre, la rilevanza si applicherebbe allo stesso modo, con il primo e l’ultimo poeta in evidenza e tutto ciò che è in mezzo a rischio di oblio. E questo è il motivo per cui inserire nella scrittura lunghi elenchi è sempre a tricky matter: se proprio lo si vuole fare, è meglio essere sicuri di saper bilanciare bene l’allascamento della rilevanza con il peso inerente di ogni singolo elemento.
È mancato due settimane fa il Professor Giorgio Bernardi Perini – latinista illustre, docente dell’Università di Padova e Accademico Virgiliano.
Vi ho parlato molte volte di Seamus Heaney.